Alfa privativo. Quel che resta del giorno.
Alfa privativo, ovvero quell’ “A” che si mette prima di qualcosa per indicare che manca: “A” cefalo ovvero senza cervello. “A” cromatico, ovvero senza colore… e via così dicendo.
L’alfa privativo è qualcosa di così profondamente intessuto oggi nella nostra vita che non ci accorgiamo di quanto ne faccia parte.
Perchè non si tratta solo di una forma linguistica, ma di un vero e proprio sistema per esplorare la realtà. Armonia tramite conflitto, potremmo definirla forse. Differenza, la chiamano altri. Ma quella cosa che ci permette di toccare, vedere, odorare, gustare, udire, sentire… è quello che non c’è.
E’ quello che cambia che ci permette di vedere quello che c’era, è il nuovo che ci permette di distinguere il vecchio.
E’ sempre quello: la differenza; la nostra mano, immobile sul tavolo, dopo un po’ non ci dice nemmeno più in che posizione è.
Tutto il nostro corpo funziona per differenza, per alfa privativo. E’ l’alternarsi di stimoli che ci permette di accorgergi che gli stimoli esistono. I sensori del nostro corpo funzionano così, cogliendo la differenza tra prima e dopo, tra vuoto e pieno.
L’alfa privativo è la porta NOT dell’intelletto. E’ il deus ex machina dell’istante trascorso. Quello stesso istante che, per analogicità di percezione, non ci è dato di cogliere se non dopo il suo trascorrere.
Quando l’istante si dilata siamo noi che acceleriamo. E’ il freeze frame della consapevolezza che entra in azione, aumentando il passo di proiezione della realtà sullo schermo della memoria.
Non vi è nulla di fermo nell’universo, se non il suo punto centrale. L’origine da cui emana la nota di fondo che tutto pervade… ma che tutto è.
E se tutto è quella nota, altro non v’è. E dunque alla fine, veramente, cosa si muove?
Ancora alfa privativo: cambia il sistema di riferimento e da fulmineo lampeggiare in un attimo di accecante velocità… sarai fermo a guardare il mondo che ti passa accanto.
Muoversi o restare: che differenza fa? Vista da dentro… tutta. Ma vista da fuori… nessuna.
Ma vale fino a che esiste un fuori. Qualcosa di più grande di te esiste sempre. Ma solo fino a che “tu” si limita a quell’autosentire che si autodefinisce.
A quel grumo di luce immerso nella stessa luce che dice di essere… e che per ironia della sorte ci crede pure, non potendo farne a meno.
Una sola luce che è già ovunque. Che non si muove.
Per questo la velocità della luce è una costante. Perchè è già ovunque. Una sola.
Che si vede riflessa in quel grumo che, separandosi, la guarda e dice: io sono.
Ma separarsi implica ricordare che prima non si era tali. Separati, intendo. Come fai a separarti da qualcosa se prima non sei uno con essa? E come fai ad accorgerti che sei uno con essa se prima non ti separi?
Uno, due, tre… ciap’el ch’el ghè… io sono quello.
Trovati un solo secondo senza “io” e vedrai come cambia la vita. O come non cambia più, anzi come inizia davvero a cambiare sotto i tuoi occhi, dentro i tuoi occhi perchè la vita è. Ma senza “io” non si può più dire che la vita sei tu.
Ma se prima non sei “io” poi non coglierai la differenza, quando il desiderio di fondere allo stato puro si manifesterà, e per un istante di grazia ricevuta, cesserà l’unicità di chi guarda.
Per ritornare a quella luce che già è.
Ovunque. In ogni tempo.
Solo che dopo che l’hai toccata… magari non riesci a rimanere lì.
Ne porti qui il ricordo. Come di un sogno. Il sogno di un codice di luce che illumina tutto. Che è tutto. Il ricordo di un pianeta intero all’interno del cuore, percepito come un solo unico punto, in un unico istante.
E sai, assolutamente, che non è tutto.
Alfa privativo: quel che resta del giorno.
Con i tuoi post tipo questo a volte sfioro la commoIone: grazie Franzissimo.
De nada Pirata! :bye: