Volando
Era solo da così tanto tempo che non si ricordava nemmeno più quanto. La fifth sotto di lui si stendeva deserta; i cadaveri delle auto, invisibili un quarto di miglio più in basso, fermi da più di quindici anni, erano ormai ridotti ad ammassi informi di ruggine, e il gracidio dei corvi rendeva per contrasto il silenzio ancora più profondo.
Simon sospirò, fissando il sole sorgente. Da dove si trovava poteva vedere comodamente verso est, e se sforzava la vista poteva anche distinguere la linea dell’oceano. Come sempre a quell’ora, specialmente nella stagione calda, la dolcezza del cielo leniva per un attimo la sua condizione; ma quel giorno i suoi ricordi scorsero giocoforza davanti ai suoi occhi come in un film.
E senza parere, ritornò alla mente agli anni prima del Grande Impatto, come lo avevano definito i giornali. Anni in cui era possibile incontrare un sacco di persone lungo le strade, anni in cui la vita brulicava sul pianeta. Ma poi era arrivato Eros. Gli scienziati avevano voluto chiamarlo così. Simon fece un mezzo sorriso tra sè e sè, comprendendo per l’ennesima volta i motivi di quella scelta, secondo l’altrettanto ennesimo punto di vista. Non ricordava più tutti gli altri, ma l’ultimo, frutto di un lampo di insight di più di un anno prima, quello lo aveva stampato in mente. Eros, Thanatos. Amore e morte. Un macabro riconoscimento al gusto noir degli anni ottanta. Alla fine comunque non era contato nulla, se non l’onnipresente Signora con la Falce.
La genesi era stata un terrorista. Il caso zero, come lo si sarebbe potuto definire, era stato un arabo, Alahim Ben Hussein, un simpatizzante di Al Qaeda. La sua nascita spirituale, nascosta dalle coltri del Corano, aveva trovato inizio tra le ceneri del sempre più prolifico Islam. Ma purtroppo aveva trovato asilo anche nelle circonvoluzioni cerebrali sempre più contorte di Ali Shakr, il nuovo “Dottor Morte” di Bin Laden.
Shadrack, lo avevano definito. Simon non conosceva l’etimologia del termine, ma poteva ben comprenderne la scelta. L’origine; un ceppo particolarmente virulento del virus Ebola, a quanto si era sospettato creato e cresciuto in laboratori segreti del Mar Caspio. Ali Shakr ci aveva lavorato sopra con l’ingegneria genetica, fino a renderlo qualcosa di inarrestabile, invulnerabile, supernamente divino. Il risultato era stato Eros. Simon ebbe ancora un ghigno stanco pensando alla voluta e ricercata blasfemia dei ricercatori occidentali, nell’appioppargli quel nome. Eros, la Passione, l’Amore. Associato al più mortale, definitivo e implacabile agente patogeno mai visto sul pianeta.
Alahim Ben Hussein lo aveva portato a New York, Washington, Tokyo, Roma, Londra. Sotto le mentite spoglie dell’agente di cambio aveva girato il mondo, con Eros nelle vene e nel sangue, infettando, ungendo, spargendo il suo seme maledetto ovunque gli fosse stato possibile. E aveva fatto dannatamente bene il suo lavoro.
Eros si era sviluppato secondo tutti i vettori di contagio conosciuti, probabili o improbabili che fossero: aereo, per contatto cutaneo, contatto sessuale, il tutto anche a distanza di giorni. Un’incubazione di sei mesi; l’arma perfetta, alfiere della volontà di Allah, secondo Al Qaeda. Quando il caso zero era esploso, era già troppo dannatamente tardi per fare qualunque cosa. Alahim era morto 48 ore dopo il presentarsi dei primi sintomi. Unica flebile soddisfazione, aveva fatto la fine del topo, soffocato dalle inarrestabili emorragie polmonari, provocate dal collasso del sistema venoso indotto da Eros.
Non ci era voluto molto. Dopo meno di otto mesi la pandemia era esplosa, facilitata dai trasporti aerei e dai sei mesi di incubazione di Eros. Nel giro di un anno si era passati a qualcosa di più; uno scenario per cui ancora non era stato nemmeno coniato il termine. Il 90 per cento della popolazione planetaria era stato falciato dall’infezione nel giro di un mese. Il restante nel giro dei successivi due.
O almeno questo era quello che sapeva Simon. Ali Shakr, catturato dopo meno di due settimane dal primo contagio aveva presentato al mondo il suo prodigioso vaccino. Qualcosa in grado sia di prevenire che di curar l’infezione. Ma qualcosa era andato storto. Il miracolo non aveva funzionato, e il rimedio aveva fallito. Un banale errore di valutazione, e il più straccione dei fanatici Jihadisti aveva concluso la sua carriera vomitando un pezzo dei suoi stessi polmoni. Insieme ad altri cinque miliardi di esseri umani.
Simon non aveva mai capito perchè la sorte gli avesse riservato un simile scherzo: lui era immune.
Ci avevano provato naturalmente. Avevano provato ad estrarre un vaccino dal suo sangue, una cura, almeno un’idea del perchè a lui no. Ma non era servito. Nulla di quello che era stato fatto era valso a nulla. E alla fine, la fine era arrivata. Per sei miliardi di esseri umani, tranne uno: lui.
Simon non si era arreso naturalmente. Aveva passato quasi sei anni a viaggiare per un mondo desolato, popolato di cadaveri e simulacri di civiltà, alla ricerca dei sopravvissuti. Ma poi, contro ogni logica, contro ogni speranza, aveva dovuto arrendersi. Londra, Milano, Roma, Parigi, New York, Mosca, Johannesburg: erano tutte città fantasma, ridotte ad immensi deserti fatiscenti. E poi ad opera della Grande Fuga, logica conseguenza del terrore, anche le città minori, le piccole comunità. Simon non aveva trovato traccia di vita umana in tutto il pianeta. Aveva passato tre anni interi costantemente collegato tramite auricolare ad un impianto di trasmissione satellitare, in attesa di un segnale che non era mai arrivato. Poi aveva dovuto realizzare: non ce n’era un altro al mondo. Nessun sopravvissuto. Era rimasto incredibilmente, irrefutabilmente solo.
Le aveva provate tutte, a quel punto. Aveva pilotato Boeing 747 e F‑117, lasciandoli precipitare quando si era stufato e lanciandosi con il paracadute. Aveva vissuto un anno nella suite presidenziale dell’Hyatt Regency, praticamente strafacendosi di tutte le droghe conosciute. Aveva letto tutti, ma proprio tutti i libri sulla meditazione e sulle pratiche esoteriche che aveva trovato nella biblioteca centrale di Londra. Per un altro anno aveva vissuto nella cantina di Herr Krugg, svuotandola completamente al ritmo costante di due bottiglie di champagne (e anche due piste di coca) al giorno. Aveva sostanzialmente vissuto nel lusso più sfrenato, libero e solo come mai un altro essere umano era riuscito ad essere.
Ma la sera prima aveva esaurito gli sfizi. La noia, la disperazione, il senso di inutilità, alla fine avevano avuto la meglio. E ora si trovava seduto sui torrioni esterni del tetto dell’Empire State, investito dai venti di quota 400 metri. Esaurì la carrellata dei pensieri e dei ricordi, e rimase così, in silenzio, la bottiglia di Jack Daniel’s Single Barrell nella mano destra, il rosario in quella sinistra. Alla fine, constatò amaramente, nemmeno la fede era riuscita a fornirgli un qualsiasi motivo per continuare. Fece un gesto al sole nascente, scolò l’ultimo sorso di Jack, lanciò il rosario nel vuoto, e poi, indolentemente, si lasciò scivolare nel vento.
Aveva studiato bene le sue carte, ne aveva avuto tutto il tempo. Come previsto i venti di quota lo ghermirono quasi subito, trascinandolo via. Aveva indossato appositamente una casacca di sua progettazione, fatta proprio con quello scopo. La Giacca del Giorno del Giudizio, come l’aveva chiamata, gli fornì la portanza sufficiente per farsi trasportare a un paio di metri dalle pareti dell’Empire. Dopotutto voleva porre fine alla propria vita solitaria, non soffrire.
Ma quell’esistenza che aveva deciso di abbandonare, gli aveva riservato ancora una sorpresa. Con suo sommo stupore, infatti, il tempo prese a dilatarsi ben oltre ogni sua precedente esperienza, indotta psicologicamente o chimicamente. Gli stimoli sembrarono arrivare in modo sequenziale, quasi in ordine. Il frusciare dell’aria tra i capelli, sui vestiti, e sul volto, ad esempio. E poi la luce, che sembrò addirittura cambiare, mentre il sole, particolarmente limpido sotto le nubi all’orizzonte, rivelava alla sua consapevolezza aumentata il proprio moto.
Voltò il viso verso le pareti del grattacielo alla sua sinistra, e non si stupì di vederle scorrere con insostenibile lentezza. Mosse un braccio verso la parete, e quando lo vide spostarsi con la stessa lentezza comprese quanto la sua mente avesse in quel momento accelerato i propri processi. Ebbe un sorriso mesto, comprendendo che quel volo sarebbe durato molto più del previsto. Ma tutto sommato gli andava bene così. Non aveva fretta e nemmeno rimpianti, perciò si mise semplicemente tranquillo, in attesa dell’impatto. Quell’impatto che lo avrebbe liberato per sempre. Niente di più, niente di meno.
Forse fu perchè era perso nei suoi rapidissimi pensieri, o forse per la particolare solennità del momento, che il suono ci mise un pò a raggiungerlo. Dapprima qualcosa di alieno, quasi perso nel vento, poi sempre più penetrante, perfettamente distinguibile.
Un suono che ebbe la proprietà di rendere di nuovo tutto perfettamente normale, di rirallentare i suoi processi mentali, e di riempirgli il cuore del più profondo senso di angoscia. Le pareti dell’Empire ricominciarono a scorrere fulminee alla sua sinistra, mentre si avvicinava alla fonte del rumore.
Fortunatamente per lui, non ebbe molto tempo per pensare, mentre, passando davanti alla finestra al decimo piano, ne riconosceva la natura: il trillo di un telefono, echeggiante nel silenzio.
Passavo da qui, in cerca di qualcosa di nuovo… Franz, è a dire poco agghiacciante!
Lo sapevo. Sapevo che sarebbe arrivato. Il guizzo, l’idea, il senso del beffardo in uno scenario improbabile (o probabilissimo). L’unghiata del lettore forte di fiction breve, di racconti americani, di fanzine d’antologia. Mi piace. Mi piace molto. E poi, prima del nome azzurro, c’è già la firma: Jack Daniel’s. Inequivocabile.