Consapevolezza: il campionamento della realtà e l’illusione discreta. – 2
Nel post precedente abbiamo interrotto il discorso facendo un parallelo tra come la nostra mente percepisce la realtà e come una videocamera riprende una scena .
La nostra mente fa quindi la stessa identica cosa, interpolando il contenuto della realtà tra un istante e l’altro di attenzione “reale”, e questo perchè è sempre proiettata nel futuro, che cerca costantemente di anticipare.
E’ per questo che è possibile, ad esempio, centrare con un sasso un oggetto in movimento. Perchè per la nostra mente è molto semplice (in senso relativo, ovviamente) dedurre il movimento di un oggetto nel futuro, sulla base della sua traiettoria precedente.
I problemi si presentano però quando l’interpolazione non avviene su questioni regolate da leggi stringenti come quelle della fisica e della matematica; un sasso lanciato per aria ha una traiettoria obbligata o quasi ma un camion, il cui guidatore si addormenta di colpo, no!
La nostra consapevolezza campiona la realtà ad intervalli irregolari (mediamente anche molto distanti tra di loro) e il resto lo “deduce” su base statistica.
In più, la ricostruzione che ne deriva ha una qualità di continuità che imita quella della realtà ma in modo estremamente sommario.
In tutti i percorsi di consapevolezza, uno dei primi concetti che viene insegnato è quello del “fotografare” se’ stessi, ovvero osservarsi, tutte le volte che ci si ricorda di farlo.
Questo apparentemente semplice esercizio produce in realtà tantissimi effetti, primo fra tutti quello di dimostrare inconfutabilmente l’intermittenza della nostra presenza e della nostra attenzione, cosa che viene evidenziata in modo lampante quando tra una “fotografia” e l’altra ci si rende conto che sono passate due ore di cui non si ha praticamente alcun ricordo, se non quei due o tre istanti in cui qualche processo emotivo improvviso è intervenuto a svegliare la nostra attenzione, anche se solo parzialmente.
Secondariamente, la persistenza in questo esercizio produce, con il protrarsi dello sforzo, un accorciamento dei tempi morti tra una fotografia e l’altra.
Ora trasliamo questo sempre sul piano della videofotografia.
Se riprendete una scena con un numero di fotogrammi per secondo insufficiente, otterrete dei movimenti a scatto, per nulla definiti. Quello che succede tra un fotogramma e l’altro può solo essere dedotto.
Aumentando il numero degli scatti nell’unità di tempo, si ottiene una percezione della scena che è sempre meno deduttiva e sempre più oggettiva (nel senso che “carta canta” o, come in questo caso, “video canta”).
Quando si arriva ad un numero di fotogrammi sufficientemente elevato, ecco che la scena inizia addirittura a muoversi al rallentatore.
Possiamo osservare la realtà con molti più particolari, proprio perchè la scena si svolge al rallenty.
Portando questo processo alle sue estreme conseguenza, cosa accadrà quando il numero di scatti sarà infinito?
Un unico fotogramma, che fotografa la realtà lungo tutto la linea del tempo, che cessa di esistere come tale.
Una percezione continua, non discreta, della realtà, in parallelo ad essa. Non un istante dopo, non un istante prima. Solo quello presente.
Avete già sentito parlare di questo concetto? (risatina di sottofondo, qualche applauso)
Ma tra un numero di scatti quasi infinito e uno infinito c’è di mezzo il “quasi”.
Quel “quasi” è qualcosa che si può oltrepassare solo con un’operazione di passaggio al limite, con una sorta di “integrale interiore”.
- Continua -
Figherrimo. Bramo la seconda parte.