La goccia e l’oceano – By Giuseppe

(Nel presentarvi quanto segue vorrei specificare che ciò che ho scritto è frutto di studio e pratica costante. Non mi ritengo di certo una autorità – in verità non sono proprio nessuno – anche se, e mi scuso di questo, assumo a volte un tono un po’ da professorino).

Buona lettura.

Solo il sé può conoscere il Sé, solo l’essere può conoscere l’Essere…solo l’atma può conoscere il Brahman (e mai per intero, s’intende).

Come, tra una goccia d’acqua, un pesce ed un nuotatore, solo la goccia d’acqua può conoscere veramente l’oceano (perché partecipe della stessa qualità) così tra l’azione, il pensiero e l’essere solo quest’ultimo può conoscere l’Essere, perché partecipe della stessa natura.

Da qui l’importanza della Ricerca Interiore, perché la Ricerca Interiore porta alla realizzazione dell’essere.

E da qui l’importanza della pratica-non pratica della “pura presenza”: perché la pratica della pura presenza è fusione cosciente nell’Essere.

Infatti:

“Quello” non può essere conosciuto tramite le parole (o i pensieri).

“Quello” non può essere conosciuto tramite l’azione, buona o cattiva che sia.

Tutti i libri del mondo che trattano questo “soggetto” non possono fare altro che girarci attorno, appunto per questo motivo.

Da qui l’inutilità della pretesa dei dogmi di poter ricongiungere l’anima a Dio (perché l’essere mai si è separato dall’Essere).

Il motivo dell’inutilità dei dogmi, e delle buone azioni, è  che la sostanza-non sostanza dell’Essere-Coscienza-Beatitudine è al di là degli elementi materiali e dei processi cognitivi.

“Quello” può essere conosciuto solo per immersione diretta.

“Quello” è altro e distinto dai ventiquattro elementi dell’universo: anima individuata (jiva), intelligenza, ego (falsa ed illusoria identità che nasce a livello della Buddhi), emotivo-mente (kama-manas), i cinque organi di azione, i cinque sensi di percezione, i cinque oggetti dei sensi e i cinque elementi cosmici (dal sottile al denso: spazio, aria, fuoco, acqua e terra).

Questi ventiquattro elementi, messi in moto e ritmati dai tre guna, appartengono all’eterna Natura Materiale, la Prakriti (anche se il jiva, che io sappia, essendo l’essere rivestito di luce, partecipa sia della Prakriti che del Purusha).

In effetti dovremmo dire che il jiva (l’anima individuata col suo vestimento di luce), pur partecipando anche della natura della Prakriti, è non-agente, esattamente come l’essere.

Ora provo a spiegare in breve come nasce il processo di “apparente azione” del jiva.

Velata dall’energia illusoria del Divino (Maya) l’anima individuata (che è essere-coscienza rivestita di luce) si identifica con le magiche forme ideate e mosse dal potere della mente universale, sino a dimenticare la sua vera natura “non agente” e trascendente.

Poi, attratto dal moto del potere discriminante dell’intelligenza cosmica (Buddhi), il jiva inizia a provare attaccamento per ciò che l’attira, e rifiuto per ciò che lo respinge, per assonanza e dissonanza.

Così, come un vaso può contenere unguenti e profumi, il jiva comincia ad attirare a sé i ventitre elementi della Natura.

Come abbiamo visto già al livello della Buddhi il jiva inizia a credere che vi sia un “io” dentro e qualcosa fuori dell’io: ecco nascere l’illusoria percezione che vi sia un ego (ahamkara) che sceglie e rifiuta.

Strutturata la convinzione che vi sia un ego nascono le infinite identificazioni e la visione duale nell’unità dell’Essere.

Ecco, quindi, il jiva caduto nella dimenticanza della sua vera natura.

Da allora in poi, per lui, sarà un continuo impantanarsi sempre più nell’ignoranza (Avidya) e nell’apparente divisione, sino ad attirare a sé, e generare col suo potere personale (in quanto ognuno di noi è un piccolo creatore di mondi), pensieri-concetti, desideri, organi di percezione, di azione, eccetera.

E scambierà la conoscenza inferiore (sensoriale ed intellettiva) per vera conoscenza.

Ma poiché la conoscenza dei sensi è legata agli oggetti dei sensi (gli oggetto visivi vengono percepiti dall’occhio, quelli uditivi dall’orecchio, eccetera; mentre i pensieri percepiscono gli oggetti pensati) con questo tipo di processo cognitivo il jiva non  conoscerà mai né se stesso né l’Essere, anzi, sprofonderà sempre più nell’illusione, perché l’Essere non è un oggetto da poter conoscere (ma il soggetto assoluto), né tantomeno è adatto a questo tipo di indagine sensoriale-intellettiva.

L’Essere può essere conosciuto solo dall’essere.

La vera conoscenza è l’Atmavidya, la conoscenza del Sé.

E “Quello”, come abbiamo visto, può essere conosciuto solo per immersione diretta, o per fusione.

Ecco come, perdendosi in Buddhi-Manas-Kama la nostra goccia-jiva, per il magico potere di Maya, dimentica di vivere nell’oceano del Brahman (Essere-Coscienza-Beatitudine) – e di averne la stessa natura -.

E poiché, come abbiamo visto, l’essere può arrivare a credere di essere separato dalla sua Sorgente (o addirittura di essere fatto di un altro tipo di sostanza), una volta identificato con le forme e i pensieri ecco che nasce il lui la paura di dissolversi come goccia, o quella di rimanere eternamente separata dal resto dell’oceano.

Da qui l’eterna ricerca del piacere attraverso i sensi e l’eterna insoddisfazione dei desideri (dovuta alla ricerca del piacere solo ed esclusivamente indirizzata verso gli oggetti sensoriali).

Di conseguenza solo dopo aver vissuto per cicli infiniti la frustrante condizione maya-avidya, l’essere comincia a intuire che forse è il “metodo estroverso di ricerca del piacere e conoscenza” ad essere sbagliato.

Inizia così a rivolgersi all’interno (se di interno si può parlare), e grazie al potere discriminante dell’intelligenza finalmente illuminata, l’essere può arrivare a intuire e comprendere che non è tramite il pensiero, e neanche tramite l’azione, che può ritrovare la giusta prospettiva di se stesso (e conseguire la conquista della Beatitudine e dell’unità che non aveva mai perduto).

L’essere risvegliato, lasciata allora cadere l’identificazione con l’illusorio ego, il pensiero e l’azione – e stabilito nella ferma contemplazione dell’Essere (Samadhi) – torna finalmente a prendere coscienza dell’oceano dal quale non si era mai allontanato.

Dopo questa presa di coscienza la nostra goccia tornerà nel “mondo dell’azione e del pensiero”, ma questa volta rimanendo “centrata” nella autoconsapevolezza del Sé immutabile, che mai è coinvolto dall’azione dei guna.

Scoperto il gioco della maya-avidya il jiva comprende che lui stesso è stato causa di schiavitù e lui stesso l’artefice della liberazione.

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