Difficile parlare di questo film. Oliver Stone dice e non dice. Si parla addosso, si para il culo, sussurra e alla fine… sputtana tutto con il classico moralismo americano da due soldi.
Gordon Gekko ritorna sulle scene dopo otto anni di galera. Incrocia il futuro genero, giovane squaletto di wall street e lo usa e riusa, da un lato per riavvicinare la figlia che di lui non ne vuole più sapere, ma soprattutto per recuperare 100 milioni di dollari blindati in un fondo fiduciario svizzero a lei intestato.
Soffiati i milioni si rilancia alla grande, rimette in piedi il business e ritorna ad essere quello che era, salvo redenzione finale quando rinuncia al capitale iniziale perchè è in arrivo il nipote.
Due soli momenti di gloria nel film.
Il primo è dato dal monologo di Douglas quando, presentando il proprio libro, spiega in poche parole la vacuità del sistema economico occidentale e i motivi che ne hanno decretato il crollo con la crisi dei subprime.
Il secondo dalla scena in cui Gordon si riconcilia con la figlia sulle scale di un museo. Qui però è Carey Mulligan, interprete della figlia Winni a dare lustro a pochi minuti alquanto intensi.
Una menzione speciale merita Eli Wallach, e la trovata della suoneria del cellulare di Jake che è proprio il ritornello del film “Il buono, il brutto e il cattivo” in cui Wallach interpreta la parte di Tuco
In sintesi l’intero film, pur scorrendo in modo piacevole, non tocca di certo le vette del primo Wall Street.
La trama affoga infatti quasi subito nel moralismo postvittoriano americano, con la famiglia sopra tutto, specialmente se a cementare l’unione dei componenti ci sono 100 milioni di dollari da conti offshore.
Alla fine anche Gekko, la cui bastardaggine intrinseca si incrina di fronte all’arrivo del futuro nipote, capitola di fronte al ricatto morale di figlia e genero, pur di ritornare a sentirsi “padre”.
Un film dagli spunti interessanti, con una parziale denuncia del sistema bancario ed economico occidentale ma soprattutto americano, ma che alla fine non riesce mai a decollare.
La figura immatura, isterica, cattocomunista e adolescenziale della figlia di Gekko, la debolezza del suo compagno, la morale di cui è profondamente intrisa l’intera trama del film ne fanno un prodotto commerciale e senza particolare profondità, sbracatamente giustizialista e del tutto inverosimile.
Preferivo Gekko quando era un autentico, irriducibile figlio di grandissima puttana.
Almeno stava dritto.
Wall Street: il moralismo non dorme mai.
Difficile parlare di questo film. Oliver Stone dice e non dice. Si parla addosso, si para il culo, sussurra e alla fine… sputtana tutto con il classico moralismo americano da due soldi.
Gordon Gekko ritorna sulle scene dopo otto anni di galera. Incrocia il futuro genero, giovane squaletto di wall street e lo usa e riusa, da un lato per riavvicinare la figlia che di lui non ne vuole più sapere, ma soprattutto per recuperare 100 milioni di dollari blindati in un fondo fiduciario svizzero a lei intestato.
Soffiati i milioni si rilancia alla grande, rimette in piedi il business e ritorna ad essere quello che era, salvo redenzione finale quando rinuncia al capitale iniziale perchè è in arrivo il nipote.
Due soli momenti di gloria nel film.
Il primo è dato dal monologo di Douglas quando, presentando il proprio libro, spiega in poche parole la vacuità del sistema economico occidentale e i motivi che ne hanno decretato il crollo con la crisi dei subprime.
Il secondo dalla scena in cui Gordon si riconcilia con la figlia sulle scale di un museo. Qui però è Carey Mulligan, interprete della figlia Winni a dare lustro a pochi minuti alquanto intensi.
Una menzione speciale merita Eli Wallach, e la trovata della suoneria del cellulare di Jake che è proprio il ritornello del film “Il buono, il brutto e il cattivo” in cui Wallach interpreta la parte di Tuco
In sintesi l’intero film, pur scorrendo in modo piacevole, non tocca di certo le vette del primo Wall Street.
La trama affoga infatti quasi subito nel moralismo postvittoriano americano, con la famiglia sopra tutto, specialmente se a cementare l’unione dei componenti ci sono 100 milioni di dollari da conti offshore.
Alla fine anche Gekko, la cui bastardaggine intrinseca si incrina di fronte all’arrivo del futuro nipote, capitola di fronte al ricatto morale di figlia e genero, pur di ritornare a sentirsi “padre”.
Un film dagli spunti interessanti, con una parziale denuncia del sistema bancario ed economico occidentale ma soprattutto americano, ma che alla fine non riesce mai a decollare.
La figura immatura, isterica, cattocomunista e adolescenziale della figlia di Gekko, la debolezza del suo compagno, la morale di cui è profondamente intrisa l’intera trama del film ne fanno un prodotto commerciale e senza particolare profondità, sbracatamente giustizialista e del tutto inverosimile.
Preferivo Gekko quando era un autentico, irriducibile figlio di grandissima puttana.
Almeno stava dritto.
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