Oneness: il senso di sé
Cosa sentiamo di noi stessi? Qual’è il “senso di noi” che percepiamo quando pensiamo a noi stessi? La parola “oneness” è davvero notevole, applicata a questo concetto. Viene usata per intendere proprio il senso di sé, ed è basata interamente sul concetto di “uno”, inteso come unità. E in effetti il vero senso di sé, come anche ci dicono tutte, ma proprio tutte le antiche e meno antiche vie per la realizzazione, passa per l’unità.
Ognuno di noi dovrebbe essere uno. Uno solo. E invece alla fine, per ben che ti vada, ce n’è almeno una decina di “te stessi” che si danno il cambio. Il famoso “centro di gravità permanente” di Battiato, ma anche il padrone di casa, il testimone invariabile e così via.
Noi non siamo abituati ad essere uno solo, ma molti, così diversi tra loro da arrivare a pensare cose diametralmente opposte nell’arco di un battito di ciglia.
Ma se si ascolta con attenzione, e si permane in questo ascolto, ad un certo punto emerge una sensazione, strana, quasi inavvertibile. Una sensazione che non ha caratteristiche enunciate, che non richiede parole, quantomeno a noi stessi, per essere identificata.
Non è una cosa definibile, non si può darle un nome, se non dopo molto tempo che la si ha presente. Si può solo sperimentare. E’ quel “senso di sé” di cui si parla nel titolo. Ed è un senso univoco, qualcosa che trascende l’io, la persona, i gusti e le emozioni, per presentare semplicemente un campo. Un campo di esistenza, potremmo definirlo, che non cambia.
Ecco, quello è il senso di sé. Un senso che, sperimentato in modo costante, alla fine ti porta in un punto da cui ascolti il tuo corpo, i pensieri e le emozioni come un involucro che ti circonda.
Che poi alla fine è esattamente quello che quasi tutte le scritture ci dicono essere la natura del rapporto tra essere da una parte e corpo fisico ed emotivo dall’altra.
Persino il cattolicesimo ne parla quando, pur a sproposito dal punto di vista terminologico, lo nomina come “anima”.
E’ il senso di sé il vero oggetto della ricerca. Si, perchè cercare fuori di noi serve a sviluppare il sapere. Cercare all’interno, invece, a sviluppare la conoscenza.
E fare la conoscenza con il nostro vero “io”, quello vero in quanto unico e permanente, oltre che impersonale, è la meta a cui aspirare.
Per tutto il resto, davvero, c’è Mastercard!
Leggiti “Uno, nessuno, centomila” di Pirandello, o “Alla ricerca del tempo perduto” di Proust, e troverai questo concetto della molteplicità dell’io descritto con mille bellissime, indimenticabili, sfumature … (Io ci ho fatto la tesi alla Sorbonne trent’anni fa)
Ho letto entrambi più o meno all’epoca in cui tu ci facevi la tesi. Hai ragione sulle mille sfumature. La cosa bella è non solo leggere di esse, ma sperimentarle in prima persona. Un miracolo, quando accade, che non si dimentica più.
Grazie del commento e del passaggio.