Le pose emotive
Tutti sanno cosa significa “mettersi in posa”: è quell’atteggiamento corporale che assumiamo volontariamente davanti ad una macchina fotografica.
L’implicazione della posa è che vogliamo esprimere qualcosa di preciso. Il corpo, quindi, assume una posizione che, secondo noi, rappresenta o trasmette quello che vogliamo far vedere di noi.
Fatto sta che non ci sono solo le pose volontarie, ma anche quelle automatiche. Sono l’insieme di manifestazioni fisiche definite come “linguaggio del corpo”. Una posa è quindi un atteggiamento corporeo che riflette qualcosa di interno, qualcosa del nostro pensiero o delle nostre emozioni.
Va da sé che lo studio delle pose rivela spessissimo molto di più di una persona di quanto essa stessa non sospetti o non voglia far vedere.
Un po’ meno conosciute sono le cosiddette “pose emotive”, vale a dire l’equivalente emozionale di una posa fisica.
Potremmo definirle come sequenze fisse di alternanza tra pensiero ed emozione, che arrivano ad essere così connaturate da diventare una sorta di lessico, un modo di comunicare.
Ad esempio: il sentirsi offesi da certe parole o considerazioni. Si tratta di una reazione semiautomatica che implica sempre la stessa concatenazione di eventi psicologici: stupore, indignazione, risentimento e conseguente litigio.
Le pose emotive sono quanto di più divertente ci sia da studiare di noi stessi (sempre che si possegga la necessaria dose di autoironia). Certe sequenze sono così stupide che, una volta individuate, spesso portano a cambiare completamente atteggiamento non solo psicologico ma anche fisico; le pose emotive infatti hanno quasi sempre una corrispondenza biunivoca con un atteggiamento corporeo, inteso come sequenza di gesti o abitudine.
Per chiarire prendiamo ad esempio una posa emotiva classica (parlo di una mia posa, così è più facile): quella tipo “ho già capito è inutile che vai avanti”.
Una volta, mentre ascoltavo il discorso di una persona, mi sono accorto che non la stavo ascoltando perchè… non vedevo l’ora di dirle la stessa cosa.
La posa emotiva era quindi una sensazione di superiorità (so già dove vai a parare), seguita da impazienza, fastidio e insofferenza. La prima volta che ho osservato questa cosa, mi sono accorto anche della sequenza di gesti corrispondente: spostare lo sguardo a destra in basso con un leggero reclinare del capo, spostare il peso da una gamba all’altra e poi risollevare il capo con un inspiro, come quando ci si prepara a dire qualcosa.
Inutile dire che, nel frattempo, non una sola parola dell’interlocutore superava la barriera timpanica: nella mia scatola cranica c’era solo l’urgenza di esprimere quello che il malcapitato stava tentando di dire con fatica, in modo da enunciare la mia innegabile superiorità.
In un primo istante ci rimasi molto male: avevo visto qualcosa di me che mi faceva, semplicemente, rabbrividire. Ma poi mi accorsi che questo era un modo rapido di crescere: riconoscere le proprie stutture meccaniche, fisiche, emotive, psicologiche o mentali poco importa.
Ma scoprii anche un’altra cosa: se non cerchi di cambiare quello che osservi, ma continui a guardarlo senza cercare di giudicarlo (anche solo dare un nome ad una cosa significa de facto emettere un giudizio), è possibile che parta una catena di osservazioni che ti portano a capire molte altre cose sul tuo funzionamento.
E non solo: una volta “stanato” uno di questi meccanismi, continuando ad osservarlo senza volerlo cambiare… prima o poi svanisce: da solo. Ma se cerchi di cambiarne anche solo una virgola, c’è la possibilità non troppo recondita che lo stesso si travesta, cambiando in un altro, per ripresentarsi sotto mentite spoglie.
Il che equivale a non cambiare una beata favazza: è come cambiare una camicia pensando di andare in giro a torso nudo: una perfetta idiozia!
Certo, alcune cose devono cessare istantaneamente di esistere. Un comportamento dannoso per gli altri o per sé stessi, ad esempio, deve cessare. Ma attenzione a non farlo scappare da qualche altra parte. Questo significa porsi una specie di “sveglia” interna che ci porta a riconoscere il comportamento in questione sul nascere, ovvero dalla reazione emotiva che lo produce e stroncarlo letteralmente all’istante.
A quel punto diventa un atto di volontà, un’azione più o meno consapevole che comunque ha la sua utilità. Sopprimere un’abitudine dannosa significa non solo risparmiare danni ad altri o a sé stessi, ma anche eliminare una causa di perdita di energia, energia che a sua volta potrà poi essere utilizzata in altri momenti.