Agire o re-agire. Presenza o meccanica?
Partiamo dalla differenza: agire significa mettere in essere un atto che origina da noi. Reagire (re-agire) significa mettere in essere un atto come risposta ad uno stimolo esterno.
Ora, prendiamo in considerazione il conosciutissimo simbolo del TAO (Yin e Yang, per intenderci). Si tratta di un simbolo con molteplici aspetti e significati ma quello che ci interessa è quello più comune.
In questo simbolo Yin e Yang (le due parti a forma di “virgola” una bianca e l’altra nera) rappresentano la dualità e la continua interazione circolare degli opposti. Yin e Yang “danzano” in ogni cosa o evento, alternandosi secondo alcune leggi. Però… all’interno di ognuno dei due c’è un piccolo cerchio di colore opposto. Quel piccolo cerchio rappresenta il seme dell’altro aspetto (Yin nello Yang e Yang nello Yin) a rappresentare la non totale esclusività di uno o dell’altro in ogni momento. In parole povere al massimo dello Yin c’è già un po’ di Yang e viceversa. Esempi di questo si trovano un po’ dappertutto, come ad esempio nelle stagioni, quando la stagione successiva fa sentire i suoi prodromi in quella precedente, oppure nella vita, quando si manifestano i segni della fase successiva che ancora non è iniziata, per esempio quando nella pubertà cominciano ad essere visibili segni e comportamenti dell’adolescenza.
Questa presenza del seme di qualcosa nel suo opposto non fa eccezione quando si parla, come nel caso di questo articolo, di azione e reazione. Benché la reazione sia spesso frutto di pura meccanica (risposta a stimolo esterno), non è sempre così: ci possono essere reazioni consapevoli o inconsapevoli ma, nel primo caso, diventano azioni, mentre nel secondo restano tali. Allo stesso modo, un’azione inconsapevole diventa una reazione.
Per agire occorre che ci sia qualcuno: un individuo, o quantomeno una persona veramente tale, che produce l’azione. Una reazione può essere consapevole e allora diventa un’azione, perchè chi la produce non lo fa come risposta meccanica ad uno stimolo esterno ma come azione consapevole all’interno di una situazione di cui è altrettanto consapevole
Tuttavia non conosco un modo generale per distinguere per definizione un’azione meccanica da una consapevole, e questo per lo stesso motivo per cui nel simbolo del Tao ogni opposto contiene un seme del suo contrario.
Non muoversi quando servirebbe ma anche muoversi quando si dovrebbe rimanere fermi sono sempre il risultato di una inconsapevolezza. Ma la differenza la fa tutta quel “condizionale”: comprendere quello che davvero si deve fare in un dato momento è qualcosa che deriva proporzionalmente dalla lucidità della nostra visione. Se non abbiamo alcuna visione allora tenderemo a non muoverci se non per soddisfare bisogni primari: quello che sostanzialmente accade alla maggioranza della gente.
Molte persone, ad esempio, vivono per lavorare (dimenticandosi che il lavoro non è la nostra vita ma il modo di procurarci i mezzi per vivere la suddetta). Molte coppie (altro esempio) mettono al mondo dei figli pensando di averlo scelto mentre tale scelta è semplicemente una risposta meccanica agli usi e costumi della società o della famiglia o ancora dell’educazione ricevute.
Gli esempi sono tantissimi e per vederne altri basta osservare la propria vita (vale per tutti). Il problema in partenza è sempre quello: per diventare meno meccanici bisogna prima accorgersi di esserlo completamente.
Il secondo passo consiste nell’andare contro corrente, ovvero nel cominciare a resistere a tutti quegli atti che ci rendiamo conto essere meccanici. Uno per volta, ma senza mollare. E questo, sempre per via di quanto detto a proposito del simbolo del Tao, implica anche e soprattutto il contrario: fare molte cose che non ci piace fare.
Il perchè è ovvio: se faccio solo quello che mi piace fare, fino a che non sarò completamente libero, significa semplicemente assecondare il flusso degli eventi. Se faccio quello che implica uno sforzo ecco che invece mi sto già dirigendo in direzione opposta all’automatismo.
Ovvio che detta così è una frase che ha poco senso: non è che siccome non mi piace andare conto i muri devo cominciare a dare craniate tutte le volte che ne vedo uno. Quello che mi occorre è un’azione consapevole, ovvero uno sforzo consapevole. In questo modo genererò una sofferenza volontaria, ovvero quella particolare forma di sofferenza che deriva dall’attrito che si genera nell’andare contro il flusso meccanico degli eventi.
Ad esempio, so che fumare fa male, ergo smetto di farlo. Nel produrre questo sforzo, genererò una sofferenza volontaria (chi ha cercato di smettere di fumare sa benissimo di cosa parlo) che produrrà a sua volta un cambiamento nel mio stato (di salute in primis).
Ecco perchè se qualcuno che asserisce di fare qualcosa per noi ci dice solo quello che ci piace sentire non sta facendo nulla per noi: perchè ci spinge lungo l’asse delle risposte meccaniche anziché verso quello delle azioni consapevoli.
Ed ecco perchè se nella nostra vita c’è solo reazione e mai azione non stiamo affatto vivendo, se non forse dal punto di vista biologico.
Mancano le passioni? Male! La passione è essenziale perchè senza di essa non siamo in grado di mettere in campo la minima azione, per quanto parzialmente meccanica. Ad un certo punto la passione va abbandonata (comunque molto più in là), ma non con essa l’energia emotiva che la caratterizza. Ovvio che non parliamo di passioni qualunque…
Azioni, reazioni e immobilità, se manca la consapevolezza non sono che automatismi.
Uh che casino questo post!