Ho cominciato a scrivere software nel 79 e non mi sono più fermato. Oggi ancora metto spesso mano al codice, anche se per scopi diversi e funzionali ad altri obiettivi.
Per molti anni però ho fatto sviluppo e, grazie a questo, ho potuto seguire la storia di questa che non stento a definire un’arte, anche se può sembrare assurdo definirla così.
Ieri un mio ex compagno di liceo (ciao Luca!), ha postato una bella foto dalla pagina FB “chi ha paura del buio”, con la grande Hamilton, la donna che scrisse il software per il sistema di guida dell’Apollo e che portò l’uomo ad atterrare (da vivo) sulla Luna. Giusto un paio di anni fa, ebbi la possibilità di accedere a una parte di quell’incredibile sorgente, scritto in un linguaggio Assembly appositamente modificato per lo specifico hardware, e rimasi di stucco per la geniale eleganza di quel sistema, qualcosa che ha un suo valore epico e un suo sapore di eroismo ancora oggi, nonostante la complessità anche solo di un software per iPhone, se scritta nello stesso linguaggio, non sia neppure lontanamente paragonabile.
La differenza sta nell’ambito, se vogliamo nel paradigma sociale all’interno del quale questo software venne ingegnerizzato, disegnato, scritto e implementato. Era pionerismo puro, perchè non era mai stato fatto nulla di simile prima.
Chi oggi ha meno di quaranta anni, è cresciuto in un mondo in cui il software è qualcosa di quasi invisibile. Parliamo di App, certo, di siti e di sistemi, ma il software “vero” (perdonatemi l’estro purista), è dimenticato dai più, anche se lì, proprio sotto tutta la pila di librerie precompilate, di framework di sviluppo, di linguaggi di n‑esima generazione, di Intelligenze Artificiali che scrivono codice da sé, c’è sempre un assembler, un codice “quasi-macchina” che fa girare il tutto.
Oggi scrivere in assembler come fece la Hamilton, è sostanzialmente fantascienza. Persino il software disegnato pochi anni più tardi per il progetto shuttle, venne scritto in HAL/S che, nonostante fosse un linguaggio dedicato, era pur sempre un meta-linguaggio, la cui compilazione generava il codice macchina e dunque già distante da quello che usò Margaret. Ma in quegli anni, quando nacque la definizione stessa di “Software engineering”, quello che fece quella donna aveva qualcosa di esoterico, sfiorava la magia. Non per l’applicazione, ma per l’ambito in cui venne prodotto.
E’ difficile da spiegare a chi non sia nato un po’ più di mezzo secolo fa, e non si occupi di informatica ma, per fare un esempio, è come se nel 1800 qualcuno avesse creato un pacemaker a carbone per un cardiopatico, e il paziente fosse sopravvissuto normalmente per 20 anni.
Lo so che questo articolo può sembrare un po’ fanatico, magari sconfinante a tratti nel delirio ma sono certo che per chi, come me, conserva ancora la memoria storica di quella che oggi è diventata l’odierna information technology, avrà invece un senso.
Hello World!
Epica di altri tempi: il software questo sconosciuto
Ho cominciato a scrivere software nel 79 e non mi sono più fermato. Oggi ancora metto spesso mano al codice, anche se per scopi diversi e funzionali ad altri obiettivi.
Per molti anni però ho fatto sviluppo e, grazie a questo, ho potuto seguire la storia di questa che non stento a definire un’arte, anche se può sembrare assurdo definirla così.
Ieri un mio ex compagno di liceo (ciao Luca!), ha postato una bella foto dalla pagina FB “chi ha paura del buio”, con la grande Hamilton, la donna che scrisse il software per il sistema di guida dell’Apollo e che portò l’uomo ad atterrare (da vivo) sulla Luna. Giusto un paio di anni fa, ebbi la possibilità di accedere a una parte di quell’incredibile sorgente, scritto in un linguaggio Assembly appositamente modificato per lo specifico hardware, e rimasi di stucco per la geniale eleganza di quel sistema, qualcosa che ha un suo valore epico e un suo sapore di eroismo ancora oggi, nonostante la complessità anche solo di un software per iPhone, se scritta nello stesso linguaggio, non sia neppure lontanamente paragonabile.
La differenza sta nell’ambito, se vogliamo nel paradigma sociale all’interno del quale questo software venne ingegnerizzato, disegnato, scritto e implementato. Era pionerismo puro, perchè non era mai stato fatto nulla di simile prima.
Chi oggi ha meno di quaranta anni, è cresciuto in un mondo in cui il software è qualcosa di quasi invisibile. Parliamo di App, certo, di siti e di sistemi, ma il software “vero” (perdonatemi l’estro purista), è dimenticato dai più, anche se lì, proprio sotto tutta la pila di librerie precompilate, di framework di sviluppo, di linguaggi di n‑esima generazione, di Intelligenze Artificiali che scrivono codice da sé, c’è sempre un assembler, un codice “quasi-macchina” che fa girare il tutto.
Oggi scrivere in assembler come fece la Hamilton, è sostanzialmente fantascienza. Persino il software disegnato pochi anni più tardi per il progetto shuttle, venne scritto in HAL/S che, nonostante fosse un linguaggio dedicato, era pur sempre un meta-linguaggio, la cui compilazione generava il codice macchina e dunque già distante da quello che usò Margaret. Ma in quegli anni, quando nacque la definizione stessa di “Software engineering”, quello che fece quella donna aveva qualcosa di esoterico, sfiorava la magia. Non per l’applicazione, ma per l’ambito in cui venne prodotto.
E’ difficile da spiegare a chi non sia nato un po’ più di mezzo secolo fa, e non si occupi di informatica ma, per fare un esempio, è come se nel 1800 qualcuno avesse creato un pacemaker a carbone per un cardiopatico, e il paziente fosse sopravvissuto normalmente per 20 anni.
Lo so che questo articolo può sembrare un po’ fanatico, magari sconfinante a tratti nel delirio ma sono certo che per chi, come me, conserva ancora la memoria storica di quella che oggi è diventata l’odierna information technology, avrà invece un senso.
Hello World!
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