Connessione e interiore

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La connessione, questa parola incredibilmente inflazionata, che rappresenta qualcosa che sembra sempre più indispensabile ma che, a ben guardare andrebbe davvero vista per quello che è e almeno da due ottave differenti.

Guardare alla tecnologia da un’ottava alta non è così difficile: tecnologia, dall’etimologia “discorso sull’arte” o per meglio dire il “saper fare“.  Oggi intendiamo per tecnologia tutta quella serie di congegni, sistemi, apparati e algoritmi che ci aiutano nel fare, e che, in buona sostanza, ampliano le nostre capacità, sensi e possibilità. Alla fine la tecnologia è qualcosa che si sviluppa dall’ingegno e che serve all’essere umano per progredire nella vita. Usare la tecnologia nel modo corretto significa avere strumenti che ci permettono di agire sempre più in quegli ambiti in cui non possiamo arrivare con i nostri mezzi e i nostri sensi: vedere l’invisibile, esplorare i misteri della materia, aumentare la nostra capacità di curare, insomma… migliorare la nostra vita a 360 gradi.

Il problema nasce quando si comincia a ragionare e ci si rende conto che la tecnologia viene sempre più utilizzata e concepita secondo un’ottava bassa anzi, bassissima.

Bisogna essere connessi 24 ore su 24 ma non per quello che sarebbe meraviglioso, ovvero per poter condividere ciò che di bello abbiamo con gli altri, per comunicare ciò che conteniamo e per imparare dalle esperienze altrui ma per fare bello sfoggio di noi. L’automobile “connessa” non per migliorare la sicurezza di chi ci viaggia sopra ma per consentirgli di rincoglionirsi completamente anche quando guida.

La tecnologia, la rete, la connessione costante… tutte cose che sarebbero meravigliose e avrebbero il potere di rendere estremamente bella la nostra vita e vengono invece usate per renderci sempre più schiavi del vanto, dell’ego, del fare bella mostra di noi.

Com’è possibile che oggi un influencer sia qualcuno che passa la giornata a fotografare sé stesso/a, a fare vedere come si veste, cosa mangia e dove va in vacanza o con cosa gioca? Ci sono persone che hanno fatto (molto intelligentemente) del proprio vantarsi un modo per guadagnare un sacco di denaro. E li chiamano influencer non perchè abbiano un qualunque talento particolare in uno o più campi quanto solo in uno: farsi vedere e, tramite quello, “influenzano” le persone.

Milioni di persone che seguono una sola persona, la imitano, comprano quello che compra lei o lui, si atteggiano e fino anche parlano nello stesso modo. Ma non perchè quella persona sia da imitare, no: semplicemente perchè ci sono milioni di persone che già fanno altrettanto. E dunque, imitandola, la gente spera, di fatto, che in qualche modo una parte di quella fortuna possa arridere anche a loro. E no, non è così, ovviamente. Oggi il sogno di moltissimi ragazzi è quello di diventare famosi, a prescindere dal modo. Vogliono diventare come Favij, Chiara Ferragni, Kim Kardashian perchè queste persone e quelle come loro sono famose e, presumibilmente, ricche.

Niente di male per l’amor del cielo, ma quello che fa specie è che in pochi o pochissimi invece vogliono diventare come Carlo Rubbia, Kazuo Ishiguro o James Allison (rispettivamente premi nobel per la fisica 1984, letteratura 2017, medicina 2018). Persone forse anche ricche ma che hanno fatto della ricerca la loro vita, solo per stare in ambito scientifico.

E certo: il livello di impegno, talento e capacità per rientrare nei due gruppi è incredibilmente diverso (con tutto il rispetto per quelli del primo gruppo).

La connessione in banda larga o ultralarga procede sempre più diffusa e veloce ma non perchè così un numero sempre maggiore di persone possa avere un accesso sempre migliore e più semplice alla cultura, alle tecniche, a livelli di benessere crescenti; anche, certo, ma solo in minima parte. La verità è che per veicolare contenuti mediatici in modo sempre più forte nella vita delle persone, in modo da poterle influenzare sempre di più e più a fondo, la banda attuale non basta. Se voglio che i sensori nascosti in una vetrina possano analizzare velocemente i movimenti oculari del cliente e mandargli pubblicità mirata su ciò che guarda di più in tempo reale ho bisogno di un sacco di Giga di banda.

Se voglio che un numero sempre maggiore di dati e di fatti personali possa affluire alle varie banche dati di Google, Facebook e porcate varie serve una disponibilità di rete sempre crescente, quasi infinita. Non dalla parte del singolo utente (anche, ma non è influente), quanto dalla parte dei server che ricevono queste informazioni.

O davvero siamo disposti a credere che il progresso tecnologico in campo mediatico sia pilotato e spinto dal desiderio di creare cultura laddove non può arrivare, di dare accesso a servizi di telemedicina laddove le distanze li rendano preziosissimi etc. etc.

E poi il capolavoro: più siamo connessi alla rete, più la nostra attenzione va lì, ai social, agli emoticon, ai messaggi scritti in una lingua sempre più povera e barbara, che ormai sostituisce sempre di più il contatto personale, il parlarsi, il guardarsi negli occhi.

E se la nostra attenzione va lì non può andare dentro di noi, dove c’è tutto quello che dobbiamo scoprire, di cui abbiamo davvero bisogno per crescere, evolverci, amare.

In buona sostanza, la frase perfetta la dice Max Formisano nell’ironico testo “Gli zombie hanno il culo pesante“, scritto a quattro mani con Mingo de Pasquale:

“… il problema è che più si è connessi con la tecnologia meno lo si è con sé stessi…”

Ci si vede in giro!

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