Lasciar andare?

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Ogni tan­to sal­ta fuo­ri il sag­gio di tur­no che ti invi­ta a lasciar anda­re. Que­sti sedi­cen­ti san­ti del­l’ul­ti­mo minu­to non han­no, di nor­ma, la ben­ché mini­ma idea di quel­lo che dicono.

Lasciar anda­re non signi­fi­ca fre­gar­se­ne. Non signi­fi­ca “per­do­na­re” (anco­ra peg­gio) e non signi­fi­ca nep­pu­re ingo­ia­re. Lasciar anda­re signi­fi­ca pro­prio quel­lo che la fra­se sug­ge­ri­sce: mol­la­re la presa!

Per ogni cosa che si affac­cia alla nostra coscien­za (quel­la ordi­na­ria), ci sono alme­no tre strut­tu­re che fan­no a gara per chi ne deve pren­de­re il controllo.

L’e­go, per pri­mo (eh… per for­za). Poi l’e­mo­ti­vo (sob­bil­la­to abil­men­te dal­l’e­go) e infi­ne la mente.

L’e­go è quel­lo comun­que che, nel 99% dei casi, gesti­sce tut­to (da vero boss). Il suo man­tra in que­sto caso è lo stes­so che lo ha mes­so al mondo:

“E no!”.

“E no che non lo mol­lo”, “E no che non glie­la do vin­ta”, “E no che lascio fini­re qui la cosa”, “E no, ades­so par­lo io”. Sono tut­te varian­ti, dal Man­tra San­scri­to “Eno­mo­soc­caz­zi” (tut­toat­tac­ca­to).

L’e­mo­ti­vo, ovvia­men­te, ci va a noz­ze per­chè sul “no” le emo­zio­ni nega­ti­ve fio­ri­sco­no come le petu­nie nel giar­di­no di Non­na Pape­ra, e quin­di vai di (nel­l’or­di­ne): rab­bia, risen­ti­men­to, odio, frustrazione.

La men­te… beh, con­si­de­ra­ta la cor­ren­te demen­za (da de-men­te, sen­za men­te), si guar­da intor­no un momen­to con gli occhio­ni spae­sa­ti, pen­sa­va di esser­ci ma inve­ce no, rea­liz­za che gli altri due si sono già fion­da­ti sul ber­sa­glio e quin­di che fa?

Dato che essen­do una de-men­te, non ha un gran che di ori­gi­na­li­tà, si met­te a pro­dur­re i soli­ti pen­sie­ri, quel­li più faci­li, tipo: “Non pos­so fare a meno di…”, “Nes­su­no mi può dire quel­lo che devo fare…”, “Io sono io e voi non sie­te un caz­zo” e così via, pastu­ran­do quin­di le già zoz­ze acque del­la cosid­det­ta “con­sa­pe­vo­lez­za”.

Lasciar anda­re signi­fi­ca pren­de­re l’e­go e costrin­ger­lo a mol­la­re l’at­tac­ca­men­to, se neces­sa­rio pie­gan­do­lo a 90° gra­di (che se sei tu il padro­ne e non lui non è poi nep­pu­re indispensabile).

Lasciar anda­re signi­fi­ca pren­de­re le emo­zio­ni e con fare soa­ve ma deci­so spie­ga­re loro che han­no seve­ra­men­te cla­sta­todidi­mi (da Didi­mos (gemel­li) e Kla­stes, rom­pe­re da cui figu­ra­ti­va­men­te “han­no rot­to i coglio­ni”), e che la devo­no pian­ta­re di cre­de­re di esse­re tut­to quel­lo in cui si imbat­to­no (capi­to cos’è l’identificazione?).

Lasciar anda­re signi­fi­ca sof­fer­mar­si a guar­da­re con aria schi­fa­ta i soli­ti due neu­ro­ni rima­sti più o meno col­le­ga­ti e fis­sar­li con espres­sio­ne bovi­na ma fer­ma. Quel­li roto­la­no, si inse­guo­no fre­ne­ti­ca­men­te rim­bal­zan­do come gal­li­ne ter­ro­riz­za­te chiu­se in un pol­la­io con una deci­na di vol­pi affa­ma­te sal­vo poi a un cer­to pun­to, dato che ego ed emo­zio­ni han­no capi­to l’an­ti­fo­na già da un pez­zo, fer­mar­si, fis­sar­si reci­pro­ca­men­te con inter­ro­ga­ti­vo stu­po­re e prof­fe­ri­re il secon­do famo­so man­tra: “… machec­caz­zo­stia­moaf­fà” (sem­pre tut­toat­tac­ca­to, sem­pre dal Sanscrito).

Lasciar anda­re non è facile!

Per lascia­re anda­re, pri­ma si deve impa­ra­re che l’e­go non sei tu; caso mai è tuo, nel­lo stes­so sen­so in cui la tua auto non espri­me il tuo carat­te­re (altri­men­ti sai quan­ti idio­ti avreb­be­ro il tuo stes­so carat­te­re?), ma ti ser­ve per spo­star­ti (e se non ti pia­ce la puoi cam­bia­re oppu­re pren­de­re il tre­no, anda­re a pie­di, a nuo­to o in nave).

Poi devi impa­ra­re che le emo­zio­ni non si gesti­sco­no, ma si usa­no e se ne gesti­sce l’e­spres­sio­ne. E che, per­dio, quan­do non ser­vo­no si met­to­no in un cas­set­to, anche a costo di usa­re il Valium!

Infi­ne devi impa­ra­re a gesti­re la de-men­te che ti tro­vi in quel­la testa di cep­pa che ti por­ti die­tro da quan­do sei nato e che, anche lei come l’e­go, non è te, ma è quel­la cosa che bla­te­ra put­ta­na­te inces­san­te­men­te ma che a un sac­co di gen­te fa como­do che tu cre­da sia te stesso.

Sono tre “step” (tre caz­zo di pas­si, ita­lo­fo­bi­ci anglo­di­pen­den­ti che non sia­mo altro) non pro­pria­men­te sem­pli­ci da fare ma indi­spen­sa­bi­li, per­chè per lasciar anda­re devi pri­ma aver pre­so qualcosa.

E se di te non c’è asso­lu­ta­men­te nul­la (nem­me­no la pro­ver­bia­le “pol­ve­re mos­sa dal ven­to” che la don­na di ser­vi­zio ha tira­to su col­l’a­spi­ra­pol­ve­re) mi spie­ghi come caz­zo fai a pren­de­re qual­sia­si cosa, a par­te for­se un paio di cal­ci nel sedere?

Potrai “ela­bo­ra­re”, potrai per­do­na­re, potrai per­si­no dimen­ti­ca­re… ma non avrai “lascia­to anda­re” per­chè sarà tut­to anco­ra lì, solo sepol­to da qual­che par­te den­tro di te.

Lasciar anda­re è quel­lo che suc­ce­de quan­do si cre­sce den­tro, quan­do si rea­liz­za­no le cose. Si può fare, ma dopo, dopo aver com­pre­so che la tua vita è una colos­sa­le per­di­ta di tem­po se con­dot­ta mec­ca­ni­ca­men­te ed aver­la quin­di pre­sa per il col­lo e ini­zia­ta a realizzare.

Pri­ma, l’u­ni­ca cosa che puoi lasciar anda­re, al mas­si­mo, è una bla­te­ran­te e blan­da­men­te effer­ve­scen­te sep­pur filo­so­fi­ca­men­te amman­ta­ta di miste­ro… scorreggia.

Ci si vede in giro!

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