Tecnologia interiore: informatica mentale e meccanica emotiva.

(Continua dal post precedente) Tanto si può paragonare il funzionamento della mente a quello di un computer, quanto molto spesso si può fare quasi la stessa cosa con le emozioni.
L’emotivo, così come sperimentato nella maggior parte dei casi, è qualcosa di estremamente superficiale, automatico e non molto raffinato.
Per fare un esempio: se la domenica e il lunedi fioriscono i programmi che parlano di calcio, non è un caso, o una questione di vicinanza temporale con le partite.
L’italiano medio considera il calcio un argomento di cui veramente vale la pena di parlare e discutere, anche per giorni e giorni, mentre se cercate di farlo parlare di qualcosa che riguardi le sue emozioni… vi parlerà di quanto si è incazzato per la perdita della partita da parte della sua squadra!
Il problema è che, oggi come oggi, la sensibilità, la profondità emotiva e il culto del bello sono stati sostituiti da valori molto, molto più superficiali. E il numero di persone che cerca nella vita qualcosa di più elevato, di diverso dalla semplice sopravvivenza, è in costante calo.
Esistono quindi due aspetti da indagare: il perchè di questa superficializzazione e come opporvisi.
Del perchè mi sembra di aver trattato abbastanza in passato e ancora ne scriverò, ma non in questo post.
Sul come opporsi… beh qui casca l’asino, perchè non è una cosa facile.
Diciamo che non si può fare a casaccio inventandosi il modo. Occorre innanzitutto volerlo fare. Ma per volerlo fare occorre accorgersi che le nostre emozioni non sono così libere come pensiamo, anzi.
E per accorgersi di questo occorre già un notevole sforzo che non può essere prodotto senza una seria disciplina che ci fornisca gli strumenti perchè ciò avvenga.
Insomma, occorre una “tecnologia emotiva” da utilizzare, altrimenti per ben che vadano le cose, i nostri sforzi non porteranno semplicemente a nulla.
Arrivare ad osservare le proprie emozioni, quantomeno quelle normali, che proviamo tutti i giorni, è già un ottimo risultato che richiede uno sforzo costante nel mettere in atto alcuni procedimenti.
Ma per il momento, una cosa che possiamo iniziare a fare senza grossa fatica, è quella di nutrire la nostra mente con contenuti diversi dalle veline e dalla schedina. Ad esempio prendendo in mano dei libri alla sera e sostituendoli alla televisione.
Ci sarebbero un mucchio di testi sulla ricerca interiore, sulla ricerca della verità etc. etc., ma per ora potremmo semplicemente accontentarci di qualcosa di semplicemente raffinato, come “Il vecchio e il mare” di Hemingway, o altri libri che non siano la raccolta delle coglionate di Totti. Che so, l’immortale “Il gabbiano Johnathan Livingston” di Bach o “Illusioni“, dello stesso autore.
Se qualcuno invece volesse qualcosa di più impegnativo potrebbe ad esempio passare a “I racconti di belzebù al suo piccolo nipote“, di Gurdgjeff.
L’azione di simili letture, quando protratta nel tempo, favorisce una sorta di “igiene mentale” ed emotiva. E’ come se lavassimo la faccia del nostro emotivo che, a quel punto, inizierebbe a considerare le superficialità della vita di tutti i giorni come qualcosa di quantomeno sospetto.
Sarebbe un “primo passo in un mondo più vasto” come diceva Ben Kenobi in Guerre Stellari all’apprendista Luke, ma per sfruttare una banalità estremamente realistica… un viaggio di mille miglia inizia con il primo passo.
– continua
C’è una bella frase di Jung che secondo me calza a pennello col tuo post. Va letta tra le righe, ma non più di tanto:
“l’arte sfigura quando entra in una stanza dove ha un prezzo ma non un valore”.
Dici che questo post “sfigura”?
Quando facciamo il primo passo del nostro viaggio di mille miglia ci troviamo, comunque sia, calati in un contesto che non ha la minima idea di cosa stiamo facendo. Anzi, direi che nemmeno si accorge che stiamo facendo qualcosa.
Allora capita di guardarsi attorno disorientati e chiedersi: ma davvero soltanto io in mezzo a tutta questa gente sto cercando “di oppormi alla superficializzazione”?
Quando desideriamo impiegare il nostro tempo alla “ricerca della vera essenza delle cose” spesso non troviamo nemmeno le parole per dirlo, e possono trascorrere anni prima di incontrare qualcuno che ha la medesima aspirazione.
Ma nel frattempo il desiderio è talmente “urgente” che ne parliamo con qualche amico, conoscente o collega ottenendo come sola reazione il vedersi due occhi vacui o irati piantati addosso che sembrano voler dire: “ma di che parli? che vuoi?”.
E qui avviene una sorta di rovesciamento: quando stiamo facendo quel primo passo, ci identifichiamo nell’immagine riflessa da quegli occhi perplessi, critici o addirittura colmi di rimprovero, perché solo così ci è stato insegnato ad “osservarci”.
E rischiamo di perdere quel potenziale, di reprimerlo, di soffocarlo pensando che abbiano ragione loro e che la nostra ricerca sia solo il capriccio di chi non si sa accontentare, non sa accettare le regole, non si sa adattare alla “dura realtà della vita”. Rischiamo insomma di fermarci già a quel primo passo rinunciando per sempre a cercare qualcosa di più elevato.
Dimenticando che “tradire gli altri non è lecito, ma tradire se stessi è un suicidio”.
:thumbup: