Dalle nebbie del tempo: campionamento della realtà ed illusione discreta

La nebbia di oggi, originariamente pubblicata in due post nel Marzo 2010.

In un precedente post ho già parlato dell’operazione di passaggio al limite. Negli ultimi tempi tuttavia ne ho potuto comprendere alcune implicazioni che si riflettono in modo sorprendente nelle meccaniche della nostra personalità.

Il termine campionamento deriva dall’omonimo teorema. Per non far venire il mal di testa a tutti però, è sufficiente pensare a questa cosa come al funzionamento di una videocamera. Un video, come credo tutti sanno, è formato in realtà da una serie di fotografie che, proiettate sullo schermo in successione, creano l’illusione del movimento.

Questo perchè il centro visivo umano non distingue movimenti la cui durata è inferiore al ventesimo circa di secondo.

Infatti, con una frequenza di proiezione pari a 24 fotogrammi al secondo, l’illusione del movimento è fluida e senza interruzioni.

In realtà quindi, la macchina da presa esegue una sorta di campionatura della realtà visiva, scattando venticinque fotografie al secondo. Tuttavia, se un movimento è sufficientemente veloce, anche nei fotogrammi che lo ritraggono apparirà come una macchia confusa (che non viene percepita dal cervello umano, esattamente come il movimento originale).

Quindi abbiamo una serie di eventi “discreti”, cioè separati tra loro, che però formano un unico evento continuo.

Ancora una volta quindi abbiamo un punto, un livello oltre il quale il particolare si perde a favore del generale e al di sotto del quale, viceversa, si perde il generale a favore del particolare.

Se allarghiamo la similitudine all’intero campo cognitivo, vediamo che la cosa permane. La “cognizione” si comporta allo stesso modo di una videocamera, campionando la realtà sensoriale ad intervalli discreti.

E’ il modo in cui si comporta la nostra consapevolezza, che si accende e si spegne ad intermittenza, a seconda che la corteccia cerebrale stimoli i processi cognitivi in un modo o in un altro.

Anche qui di fatto abbiamo quindi “fotografie” della realtà che la congelano in un particolare istante. Ma la realtà non è “discreta”. La realtà ha un’esistenza continua, non quantizzabile. E’ la nostra consapevolezza che, accendendosi e spegnendosi sulla scorta di stimoli esterni, per lo più emotivi, fotografa la realtà ad intervalli irregolari.

La cosa più divertente è che tra una fotografia e l’altra, la nostra mente si comporta proprio come un qualsiasi software di rendering video, “interpolando” la realtà tra uno scatto e l’altro.

L’interpolazione è un concetto principalmente grafico. Se abbiamo due punti nello spazio e vogliamo tirare una linea retta tra essi con un computer, per risparmiare sarà sufficiente fissare i due estremi.

I rimanenti pixel tra i due punti verranno riempiti del colore più utile a disegnare una retta, sulla base appunto di una “interpolazione”.

Sostanzialmente questa operazione consiste nel riempire lo spazio tra due estremi ricreandone il contenuto sulla base di una media dei contenuti.

La nostra mente fa quindi la stessa identica cosa, interpolando il contenuto della realtà tra un istante e l’altro di attenzione “reale”, e questo perchè è sempre proiettata nel futuro, che cerca costantemente di anticipare.

E’ per questo che è possibile, ad esempio, centrare con un sasso un oggetto in movimento. Perchè per la nostra mente è molto semplice (in senso relativo, ovviamente) dedurre il movimento di un oggetto nel futuro, sulla base della sua traiettoria precedente.

I problemi si presentano però quando l’interpolazione non avviene su questioni regolate da leggi stringenti come quelle della fisica e della matematica; un sasso lanciato per aria ha una traiettoria obbligata o quasi ma un camion, il cui guidatore si addormenta di colpo, no!

La nostra consapevolezza campiona la realtà ad intervalli irregolari (mediamente anche molto distanti tra di loro) e il resto lo “deduce” su base statistica.

In più, la ricostruzione che ne deriva ha una qualità di continuità che imita quella della realtà ma in modo estremamente sommario.

In tutti i percorsi di consapevolezza, uno dei primi concetti che viene insegnato è quello del “fotografare” se’ stessi, ovvero osservarsi, tutte le volte che ci si ricorda di farlo.

Questo apparentemente semplice esercizio produce in realtà tantissimi effetti, primo fra tutti quello di dimostrare inconfutabilmente l’intermittenza della nostra presenza e della nostra attenzione, cosa che viene evidenziata in modo lampante quando tra una “fotografia” e l’altra ci si rende conto che sono passate due ore di cui non si ha praticamente alcun ricordo, se non quei due o tre istanti in cui qualche processo emotivo improvviso è intervenuto a svegliare la nostra attenzione, anche se solo parzialmente.

Secondariamente, la persistenza in questo esercizio produce, con il protrarsi dello sforzo, un accorciamento dei tempi morti tra una fotografia e l’altra.

Ora trasliamo questo sempre sul piano della videofotografia.

Se riprendete una scena con un numero di fotogrammi per secondo insufficiente, otterrete dei movimenti a scatto, per nulla definiti. Quello che succede tra un fotogramma e l’altro può solo essere dedotto.

Aumentando il numero degli scatti nell’unità di tempo, si ottiene una percezione della scena che è sempre meno deduttiva e sempre più oggettiva (nel senso che “carta canta” o, come in questo caso, “video canta”).

Quando si arriva ad un numero di fotogrammi sufficientemente elevato, ecco che la scena inizia addirittura a muoversi al rallentatore.

Possiamo osservare la realtà con molti più particolari, proprio perchè la scena si svolge al rallenty.

Portando questo processo alle sue estreme conseguenza, cosa accadrà quando il numero di scatti sarà infinito?

Un unico fotogramma, che fotografa la realtà lungo tutto la linea del tempo, che cessa di esistere come tale.

Una percezione continua, non discreta, della realtà, in parallelo ad essa. Non un istante dopo, non un istante prima. Solo quello presente.

Avete già sentito parlare di questo concetto? (risatina di sottofondo, qualche applauso)

Ma tra un numero di scatti quasi infinito e uno infinito c’è di mezzo il “quasi“.

Quel “quasi” è qualcosa che si può oltrepassare solo con un’operazione di passaggio al limite, con una sorta di “integrale interiore“.

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