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Chi dice “voi” dice “io”. Il che non necessariamente ha un senso

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Fac­cia­mo­ci caso: fac­cia­mo caso a quan­te vol­te, nel­l’am­bi­to di un qua­lun­que dia­lo­go, il nostro inter­lo­cu­to­re o noi stes­si, uti­liz­zia­mo il ter­mi­ne “io”. E quan­te vol­te, per con­tra­sto, i ter­mi­ni “noi” e “voi”.

Non è una que­stio­ne esclu­si­va­men­te seman­ti­ca, ma di pro­fon­da rive­la­zio­ne di quel­lo che sta die­tro a chi par­la o, meglio, sot­to alle sue parole.

In sen­so lato, ogni vol­ta che in un qua­lun­que discor­so qual­cu­no usa “voi”, sta imme­dia­ta­men­te inse­ren­do un distin­guo tra se stes­so e il resto del mon­do (pre­su­mi­bil­men­te costi­tui­to dal sot­toin­sie­me di quel­li che lo stan­no ascoltando).

Il che sostan­zial­men­te por­ta a due sce­na­ri: il pri­mo è quel­lo in cui chi par­la è effet­ti­va­men­te su un pia­no diver­so e sta dicen­do a del­le per­so­ne cose di cui non sono al cor­ren­te ma lui si. In que­sto caso, chi par­la è effet­ti­va­men­te in pos­ses­so di nozio­ni o cono­scen­ze che il pub­bli­co non pos­sie­de. Che se la tiri o no è inin­fluen­te: il sen­so ogget­ti­vo del­la cosa è che lui sa… e gli altri no. Punto.

Il secon­do sce­na­rio è quel­lo inve­ce in cui chi par­la cre­de di esse­re (maga­ri anche in buo­na fede) su un pia­no diver­so ma, alla real­tà dei fat­ti, non lo è. In que­sto caso quel­lo che acca­de è che vie­ne crea­ta una sepa­ra­zio­ne inu­ti­le ma, soprat­tut­to, fuor­vian­te sia per chi par­la che per il pub­bli­co. Quel­lo di crea­re que­sto distac­co è mol­to spes­so un truc­co uti­liz­za­to da chi non ha alcu­na auto­ri­tà ogget­ti­va in sé e si ser­ve qun­di di que­sto siste­ma per costruir­ne una fit­ti­zia. Va da sé che, se que­sto è lo sce­na­rio, è oppor­tu­no man­da­re al più pre­sto chi par­la a quel pae­se e anda­re a tro­va­re quel­lo che cer­chia­mo da qual­che altra parte.

Que­sto è inci­den­tal­men­te qual­co­sa che ci riguar­da anche quan­do sia­mo dal­la par­te di chi par­la, non solo da quel­la del pub­bli­co, e desi­de­ria­mo in qual­che modo tra­smet­te­re quel­lo che abbia­mo den­tro, sia esso un sape­re che un auten­ti­co insegnamento.

Cre­do che la cosa più impor­tan­te quan­do si trat­ta di inse­gna­re qual­co­sa a qual­cu­no o anche solo espri­me­re o con­di­vi­de­re un con­cet­to, sia com­pren­de­re qua­le sia il lin­guag­gio di que­sta per­so­na e rego­la­re la nostra espres­sio­ne di con­se­guen­za, ovvia­men­te nei limi­ti in cui quel­lo che voglia­mo tra­smet­te­re sia espri­mi­bi­le in quel­lo spe­ci­fi­co modo. Esi­sto­no limi­ti ogget­ti­vi che pos­so­no ren­de­re intra­smis­si­bi­le un con­cet­to, se non uti­liz­zan­do un lin­guag­gio appo­si­to. Per esem­pio, par­la­re di que­stio­ni infor­ma­ti­che, da un cer­to livel­lo in poi diven­ta impos­si­bi­le sen­za l’au­si­lio di ter­mi­ni specifici.

Ma al di là del­le ine­vi­ta­bi­li ecce­zio­ni, di soli­to le per­so­ne ten­do­no a dimen­ti­ca­re che ognu­no di noi è un mon­do a sé stan­te, con uno svi­lup­po uni­co, che por­ta ognu­no ad una per­ce­zio­ne dif­fe­ren­te. Se vuoi spie­ga­re qual­co­sa ad un cine­se che par­la solo man­da­ri­no e pre­ten­di di far­lo par­lan­do solo ita­lia­no, è ovvio che la cosa è fini­ta ancor pri­ma di iniziare.

Deci­de­re se usa­re “noi” o “voi” quan­do sia­mo dal­la par­te di chi inse­gna, è una que­stio­ne del tut­to per­so­na­le e sog­get­ti­va e attie­ne esclu­si­va­men­te a quel­lo che è il nostro sen­ti­re, oltre che natu­ral­men­te alle que­stio­ni ogget­ti­ve ine­ren­ti la mate­ria in que­stio­ne ma, soprat­tut­to, a quel­lo che per­ce­pia­mo di chi abbia­mo davan­ti. Il che è già un bel casi­no quan­do sia­mo di fron­te ad una sin­go­la per­so­na ma diven­ta un auten­ti­co macel­lo quan­do ci tro­via­mo davan­ti un pub­bli­co più o meno nume­ro­so: coglie­re le sin­go­le qua­li­tà non basta più infat­ti per­chè occor­re coglie­re anche quel­la gene­ra­le, di grup­po, che è com­ple­ta­men­te diver­sa e, pur­trop­po, non è sem­pli­ce­men­te ridu­ci­bi­le alla som­ma del­le sin­go­le qualità.

Alla fine del­la fie­ra comun­que, indi­pen­den­te­men­te dal lato in cui ci tro­via­mo, la fac­cen­da ritor­na sem­pre allo stes­so pun­to: dob­bia­mo sem­pre col­le­ga­re i neu­ro­ni non solo tra di loro ma anche a quel­la par­te di noi così tan­to dimen­ti­ca­ta, sem­pre di più man mano che pas­sa­no que­sti tem­pi stra­ni: il cuore!

Ci si vede in giro!

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