Tecniche respiratorie: introduzione a Pranapanagati
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Pranapanagati. Sembra uno scioglilingua a leggerlo (e pure a scriverlo) ma la realtà è che si tratta, almeno per me, dell’alfa e omega dei Pranayama: è stato il primo che ho praticato ed è quello a cui torno sempre, quando altre tecniche creano uno spazio diverso all’interno.
In questo video, volevo illustrare la tecnica di base. Dico “di base” perchè se è vero che Pranapanagati è una sola, è anche vero che i modi di eseguirla, così come le visualizzazioni che si possono usare per le circuitazioni energetiche sono pressoché infiniti.
Tuttavia per tutto c’è un inizio, un canone, se mi è consentito il termine. Quella che vi propongo oggi è la base, con una visualizzazione che non è quella “finale” ma è indubitabilmente utile per iniziare. Quello che è canonico in questa spiegazione è il respiro, nella fattispecie il suono che occorre produrre e la corrispondenza con la zona del corpo.
Tralascio le solite raccomandazioni sulla schiena dritta, la postura possibilmente in loto, mezzo loto, siddhasana. Presumiamo inoltre per questo video che il suono Ujjayi sia cosa conosciuta ed acquisita.
Innanzitutto l’asse centrale, che è quello lungo cui si muoverà la nostra energia; è un “canale” direzionale che sta al centro del corpo, davanti alla colonna vertebrale (non dentro). Per ora, in senso di sintesi e per evitare inutili diatribe, evitiamo di dargli un nome e consideriamolo semplicemente come qualcosa di ideale: un percorso lungo cui faremo muovere l’energia.
Per avere un’idea precisa di quale zona stiamo parlando, immaginiamo un tubo che passa dritto dal perineo fino alla sommità del capo, in corrispondenza di quella che nei bimbi è detta fontanella (e che, per inciso, non è un caso che alla nascita sia ancora aperta).
Possiamo immaginare il canale vuoto, più stretto o più largo: in questa prima fase non ha una grande importanza perchè ciò di cui ci vogliamo occupare in questa prima spiegazione sono: il respiro, il suo ritmo e il suo suono.
Ora, questo canale percorre come abbiamo detto il corpo dal perineo fino alla sommità del capo, come la tromba di un ascensore che percorre un palazzo in tutta la sua altezza.
Per la nostra esecuzione prenderemo due punti di riferimento: il primo è proprio sopra il perineo, circa tre dita più in alto. Il secondo è esattamente al centro del capo, quindi all’incrocio di due ipotetiche linee: la prima che passa dal centro degli occhi verso la nuca, parallelamente al terreno, la seconda che congiunge pressapoco le tempie, sempre parallela al terreno; al punto di incontro di queste linee si trova quindi il nostro secondo punto di interesse.
Ora, nell’inspiro partiremo dal primo punto (quello in basso) e saliremo lungo il canale centrale fino al secondo punto (quello in alto). Nell’espiro, faremo il contrario, dall’alto verso il basso.
Il nostro Ujjayi seguirà un’andatura più o meno “fusiforme”, il che significa che sarà un suono sottile e delicato all’inizio e poi, man mano che saliamo, diventerà più importante, sonoro, fino ad un’altezza poco sopra lo sterno in cui sarà al massimo del volume, poi il suono diventerà più sottile fino a sparire del tutto quando saremo in corrispondenza del punto al centro del capo. Da qui riprenderemo all’inverso con l’espiro: sottile all’inizio, più forte e sonoro fino all’altezza dello sterno e poi di nuovo prograssivamente più sottile fino a sparire in prossimità del punto più basso.
Il ciclo è questo ma… non abbiamo parlato di una cosa fondamentale: le pause!
La pausa tra ogni fase respiratoria è molto importante. Nel caso di questa esecuzione di Pranapanagati però è brevissima; le due fasi sono separate da un solo istante, esattamente come un sasso che, lanciato in verticale, rallenta la sua salita fino a rimanere immobile al culmine della traiettoria per un breve istante, per poi tornare a cadere, accelerando verso il basso. La stessa cosa vale per entrambe le pause, sia per quella dopo l’inspiro che per quella dopo l’espiro.
Altro aspetto importante è la durata delle fasi di inspiro ed espiro che devono essere uguali. Per questo motivo, il mio consiglio è di trovare un ritmo iniziale che non sia tanto lungo da portarci in affanno ma neppure tanto breve da portarci all’iperventilazione.
Ho detto “ritmo iniziale” a ragion veduta. Osserveremo infatti che, con il protrarsi dell’esecuzione, il respiro tenderà ad autoregolarsi, allungandosi progressivamente, il che è esattamente ciò che deve accadere.
Un ultimo particolare molto importante: la capacità polmonare impiegata. I polmoni non devono (in questa tecnica) essere mai riempiti ne svuotati completamente; approssimativamente possiamo immaginare di utilizzare circa 5/7 della nostra capacità totale, lasciando 1/7 a fine inspiro e 1/7 a fine espiro. Tuttavia la parte da 5/7 deve essere utilizzata completamente in ogni fase respiratoria; quindi ricordiamoci che i nostri respiri dovranno essere comunque ampi e profondi.
Ora vedremo 3 esecuzioni complete come esempio dello schema che abbiamo appena descritto.
Cerchiamo di produrre un suono il più possibile simile a quello proposto per un tempo ragionevole. Un buon inizio potrebbe essere di anche soli 15 minuti al giorno, ma tutti i giorni. Poi, quando saremo entrati nella tecnica, potremo allungare il tempo di esecuzione; non c’è propriamente un limite: dipende da quanto vogliamo lavorare su noi stessi (e dalla possibilità che abbiamo di farlo).
Ricordiamoci comunque che la pratica è come l’acqua della pasta: se non bolle, non funziona. I 15 minuti iniziali servono solo per stabilire una routine giornaliera: la pratica inizierà a produrre i suoi effetti con un tempo… un po’ superiore. Tuttavia, come dice Lao-Tzu:
“Un viaggio di 1.000 miglia inizia sempre con il primo passo”.
Ci si vede in giro!