C’è questo ricordo, carissimo, che mi staziona nel cuore da quasi mezzo secolo. A volte questo tipo di ricordi è giusto che se ne stia lì, come un bel quadro appeso in una casa d’epoca, in cui le generazioni si succedono una all’altra; altre volte, raramente, il fatto di condividerli è quasi un atto dovuto, nel momento in cui metterli nero su bianco ha un suo senso tutto particolare, come in questo caso.
Se oggi adoro la matematica, se sono in grado di comprendere e parlare di fisica quantistica, lo devo ad una persona meravigliosa: il mio prof. di matematica delle medie. Ha lasciato il corpo qualche anno fa ma, inaspettatamente, pochi giorni dopo il suo trapasso, ricevo un piccolo dono in eredità. Un eserciziario di analisi matematica. La dedica, sintetica come era lui: “Fanne buon uso, a me non servirà più“.
Mi era rimasto nel cuore ed, evidentemente, io dovevo in qualche modo essere rimasto nel suo.
Ma andiamo con ordine. Correva l’anno 1976, ero in prima media. Alle elementari si studiavano all’epoca aritmetica e geometria di base. Alle medie iniziava lo studio delle espressioni, delle equazioni, della geometria euclidea e dei famosi “teoremi”.
Se fino all’anno prima non avevo avuto il benchè minimo problema con la matematica, in qualche modo in prima media affrontai una specie di “blocco” emotivo. Per qualche oscura ragione divenni improvvisamente incapace di risolvere gli esercizi del programma di studi. La prima insufficienza mi lasciò interdetto: ma come: “IO” che prendevo un 4 in matematica? Non era possibile! Anche perchè durante le normali lezioni non ne sbagliavo uno… doveva essere un caso.
Secondo compito in classe, seconda in sufficienza. Qualcosa non andava. A quel punto ero decisamente nel panico tutte le volte che si avvicinava una di quelle malefiche verifiche.
Terzo compito in classe: qualcosa cambia. Gli esercizi mi vengono fuori puliti, velocemente e tutti esatti. Quasi non ci posso credere: confronto i risultati con il mio compagno di banco; tutto giusto! Prendo un 10 che mi salva la media sulla pagella del primo trimestre (all’epoca si andava a trimestri).
Il resto dell’anno va via liscio come l’olio, e da quel momento non soffro più di quel blocco. Anzi, qualunque esercizio, per quanto complesso, non rappresenta per me un problema e questa lucidità nel “far di conto” mi accompagna ancora oggi. Chiudo l’anno con una media dell’otto e mezzo.
Il prof sorride, anche perchè a me la matematica era sempre piaciuta. Per lui vedere che sono ritornato ad amarla è una soddisfazione personale. Nasce un rapporto di amicizia che mi regala qualcosa di enorme: l’incredibile umanità e professionalità di questo uomo di altri tempi, dalla dentiera un po’ ballerina, ma che sorride sempre, che ha sempre una parola gentile e che insegna, più che la matematica, il modo di amarla. E scusate se è poco.
Lui aveva anche un rapporto speciale con mia madre. Tutti e due milanesi dentro, fin nell’osso, quando si incontravano ai colloqui con i genitori, invece di parlare di me si mettevano a raccontarsi barzellette in dialetto, ricordando tempi già allora trascorsi da parecchio, in cui si andava a mangiare a Ronchetto delle rane, oppure si passeggiava alla fiera degli obei obei, sfondandosi letteralmente di risotto giallo con la luganega (salsiccia) e ogni 10 passi qualcuno ti riempiva il bicchiere di Barbera.
Due anni dopo, si chiude il ciclo delle medie. Mi preparo a separarmi da tutti i prof. che, in quei tempi, avevo avuto la fortuna di avere. Fortuna perchè erano quasi tutti (quasi…) della stessa pasta; incredibile amore per il loro lavoro, per noi ragazzi e per le materie che insegnavano. Quasi tutti delle autentiche montagne di umanità e cultura, professionale e umana.
L’anno successivo mi iscrivo al liceo: il mio rendimento prosegue in modo lineare. Il primo compito in classe di matematica mi vede racimolare un 8 secco. Nessun problema.
Quando porto a casa la pagella del primo quadrimestre (al liceo si andava di quadrimestri), con la media dell’8 in matematica, i miei si guardano complici, e si fanno una grassa risata. Capisco che qualche cosa bolle in pentola, chiedo e loro mi spiegano.
In prima media, il cambio dalle elementari mi aveva in qualche modo creato dei problemi che poi si erano manifestati in quel “blocco emotivo” sui compiti di matematica.
Ma il prof non era uno stupido. Si era accorto che durante tutte le lezioni non avevo difficoltà, ma solo durante i compiti in classe. Compresa la natura del problema aveva ideato un piano fantastico: d’accordo con i miei genitori e con la complicità del mio compagno di banco (allora come adesso uno dei miei più grandi amici, anche se da un po’ non ci sentiamo) aveva dato a me (e a lui, perchè sapeva che confrontavamo sempre i risultati degli esercizi) un compito diverso da quello di tutti gli altri: del tutto elementare, facilissimo, con esercizi che era certo che avrei risolto con o senza problemi emotivi, tanto erano lineari.
Quell’uomo aveva non solo capito il problema che mi si era creato ma aveva anche trovato la soluzione; dovevo solo ritrovare la fiducia nelle mie capacità per superare quell’empasse. E aveva avuto pienamente ragione.
I miei genitori e il mio amico erano al corrente ma avevano mantenuto il segreto per anni, e poi se ne erano anche dimenticati, fino a quel momento. Mi ricordo ancora l’espressione divertita del mio amico, gli occhi incredibilmente azzurri che dardeggiavano divertiti mentre alla mia domanda: “Ma allora tu lo hai sempre saputo”, rispondeva ghignando: “… e certo!”.
Un immenso dono a cui, come detto prima, ancora oggi devo la parte scientifica della mia mentalità.
Non sono nella scuola da tantissimo tempo, e sono sicuro che esistono ancora figure come quella del mio prof. delle medie, ma da quello che leggo sul mondo dell’insegnamento, sull’atteggiamento di giovani, insegnanti e genitori, credo proprio che una cosa del genere oggi potrebbe difficilmente accadere.
Ma è accaduta. E io, per mia immensa fortuna, c’ero!
Ci si vede in giro!
C’era una volta un prof…
C’è questo ricordo, carissimo, che mi staziona nel cuore da quasi mezzo secolo. A volte questo tipo di ricordi è giusto che se ne stia lì, come un bel quadro appeso in una casa d’epoca, in cui le generazioni si succedono una all’altra; altre volte, raramente, il fatto di condividerli è quasi un atto dovuto, nel momento in cui metterli nero su bianco ha un suo senso tutto particolare, come in questo caso.
Se oggi adoro la matematica, se sono in grado di comprendere e parlare di fisica quantistica, lo devo ad una persona meravigliosa: il mio prof. di matematica delle medie. Ha lasciato il corpo qualche anno fa ma, inaspettatamente, pochi giorni dopo il suo trapasso, ricevo un piccolo dono in eredità. Un eserciziario di analisi matematica. La dedica, sintetica come era lui: “Fanne buon uso, a me non servirà più“.
Mi era rimasto nel cuore ed, evidentemente, io dovevo in qualche modo essere rimasto nel suo.
Ma andiamo con ordine. Correva l’anno 1976, ero in prima media. Alle elementari si studiavano all’epoca aritmetica e geometria di base. Alle medie iniziava lo studio delle espressioni, delle equazioni, della geometria euclidea e dei famosi “teoremi”.
Se fino all’anno prima non avevo avuto il benchè minimo problema con la matematica, in qualche modo in prima media affrontai una specie di “blocco” emotivo. Per qualche oscura ragione divenni improvvisamente incapace di risolvere gli esercizi del programma di studi. La prima insufficienza mi lasciò interdetto: ma come: “IO” che prendevo un 4 in matematica? Non era possibile! Anche perchè durante le normali lezioni non ne sbagliavo uno… doveva essere un caso.
Secondo compito in classe, seconda in sufficienza. Qualcosa non andava. A quel punto ero decisamente nel panico tutte le volte che si avvicinava una di quelle malefiche verifiche.
Terzo compito in classe: qualcosa cambia. Gli esercizi mi vengono fuori puliti, velocemente e tutti esatti. Quasi non ci posso credere: confronto i risultati con il mio compagno di banco; tutto giusto! Prendo un 10 che mi salva la media sulla pagella del primo trimestre (all’epoca si andava a trimestri).
Il resto dell’anno va via liscio come l’olio, e da quel momento non soffro più di quel blocco. Anzi, qualunque esercizio, per quanto complesso, non rappresenta per me un problema e questa lucidità nel “far di conto” mi accompagna ancora oggi. Chiudo l’anno con una media dell’otto e mezzo.
Il prof sorride, anche perchè a me la matematica era sempre piaciuta. Per lui vedere che sono ritornato ad amarla è una soddisfazione personale. Nasce un rapporto di amicizia che mi regala qualcosa di enorme: l’incredibile umanità e professionalità di questo uomo di altri tempi, dalla dentiera un po’ ballerina, ma che sorride sempre, che ha sempre una parola gentile e che insegna, più che la matematica, il modo di amarla. E scusate se è poco.
Lui aveva anche un rapporto speciale con mia madre. Tutti e due milanesi dentro, fin nell’osso, quando si incontravano ai colloqui con i genitori, invece di parlare di me si mettevano a raccontarsi barzellette in dialetto, ricordando tempi già allora trascorsi da parecchio, in cui si andava a mangiare a Ronchetto delle rane, oppure si passeggiava alla fiera degli obei obei, sfondandosi letteralmente di risotto giallo con la luganega (salsiccia) e ogni 10 passi qualcuno ti riempiva il bicchiere di Barbera.
Due anni dopo, si chiude il ciclo delle medie. Mi preparo a separarmi da tutti i prof. che, in quei tempi, avevo avuto la fortuna di avere. Fortuna perchè erano quasi tutti (quasi…) della stessa pasta; incredibile amore per il loro lavoro, per noi ragazzi e per le materie che insegnavano. Quasi tutti delle autentiche montagne di umanità e cultura, professionale e umana.
L’anno successivo mi iscrivo al liceo: il mio rendimento prosegue in modo lineare. Il primo compito in classe di matematica mi vede racimolare un 8 secco. Nessun problema.
Quando porto a casa la pagella del primo quadrimestre (al liceo si andava di quadrimestri), con la media dell’8 in matematica, i miei si guardano complici, e si fanno una grassa risata. Capisco che qualche cosa bolle in pentola, chiedo e loro mi spiegano.
In prima media, il cambio dalle elementari mi aveva in qualche modo creato dei problemi che poi si erano manifestati in quel “blocco emotivo” sui compiti di matematica.
Ma il prof non era uno stupido. Si era accorto che durante tutte le lezioni non avevo difficoltà, ma solo durante i compiti in classe. Compresa la natura del problema aveva ideato un piano fantastico: d’accordo con i miei genitori e con la complicità del mio compagno di banco (allora come adesso uno dei miei più grandi amici, anche se da un po’ non ci sentiamo) aveva dato a me (e a lui, perchè sapeva che confrontavamo sempre i risultati degli esercizi) un compito diverso da quello di tutti gli altri: del tutto elementare, facilissimo, con esercizi che era certo che avrei risolto con o senza problemi emotivi, tanto erano lineari.
Quell’uomo aveva non solo capito il problema che mi si era creato ma aveva anche trovato la soluzione; dovevo solo ritrovare la fiducia nelle mie capacità per superare quell’empasse. E aveva avuto pienamente ragione.
I miei genitori e il mio amico erano al corrente ma avevano mantenuto il segreto per anni, e poi se ne erano anche dimenticati, fino a quel momento. Mi ricordo ancora l’espressione divertita del mio amico, gli occhi incredibilmente azzurri che dardeggiavano divertiti mentre alla mia domanda: “Ma allora tu lo hai sempre saputo”, rispondeva ghignando: “… e certo!”.
Un immenso dono a cui, come detto prima, ancora oggi devo la parte scientifica della mia mentalità.
Non sono nella scuola da tantissimo tempo, e sono sicuro che esistono ancora figure come quella del mio prof. delle medie, ma da quello che leggo sul mondo dell’insegnamento, sull’atteggiamento di giovani, insegnanti e genitori, credo proprio che una cosa del genere oggi potrebbe difficilmente accadere.
Ma è accaduta. E io, per mia immensa fortuna, c’ero!
Ci si vede in giro!
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