Tecniche di osservazione di sé: 1/4 – In prima persona
AVVERTENZA IMPORTANTE!
Queste tecniche fanno parte di un “corpus” molto esteso, introdotto e sviluppato da G. I. Gurdjieff a cavallo tra fine ‘800 e primi del ‘900; venivano insegnate direttamente e all’interno di un percorso di crescita interiore.
Il motivo per cui ne parlo è esclusivamente culturale e descrittivo. Non devono essere messe in pratica senza la supervisione di un istruttore che sia in grado di dirimere eventuali dubbi, e decidere la durata per cui devono essere praticate e anche il momento giusto per farlo. Soprattutto non devono essere messe in pratica quando è richiesta un’attenzione particolare o l’utilizzo di automatismi fisici. Quindi, ad esempio (non esaustivo) non devono essere usate mentre si guidano veicoli, motocicli, biciclette etc. etc. o mentre si eseguono compiti fisicamente impegnativi dal punto di vista comportamentale, perchè vanno a dividere l’attenzione in modo drastico.
Se le mettete in pratica senza la supervisione di un istruttore lo fate a vostro rischio e pericolo ma vi sconsiglio caldamente di farlo!
Detto questo iniziamo con la prima tecnica: Osservazione in prima persona.
Si tratta di una tecnica estremamente semplice che consiste, nell’arco della giornata, nel descrivere mentalmente ogni singolo atto che eseguiamo. Ad esempio, se stiamo facendo il caffè con una moka, il risultato sarà pressapoco questo:
“Prendo la moka dallo scaffale”,
“Svito la parte inferiore della moka”,
“Tolgo il filtro”,
“Apro il rubinetto dell’acqua”
“Metto l’acqua nel serbatoio”,
“Chiudo il rubinetto dell’acqua”,
“Prendo sacchetto del caffè dal cassetto”,
“Prendo il cucchiaino”,
“Riempio il cucchiaino di caffè”, etc. etc.
Queste frasi descrittive vengono “dette” a livello mentale, non vocalizzate a voce alta e accompagnano ogni azione per tutto l’arco della giornata, con ovvie eccezioni: se si prende l’auto, ad esempio, ci si accorge che sarà quasi impossibile eseguirle ma, soprattutto, che la guida ne sarà gravemente impattata, perchè non sarà possibile portare contemporaneamente l’attenzione alle frasi dette e a quanto accade intorno.
Stesso discorso vale se si sta facendo un lavoro che richiede movimenti rapidi e che sono stati resi automatici nel tempo.
Eseguire questo esercizio non è semplice, anzi: è piuttosto difficile. Non tanto per l’esercizio in sé quanto perchè è molto facile “perdere” il ricordo del fatto che lo si vuole eseguire e, soprattutto all’inizio, perchè viene a mancare la volontà di farlo.
Un aspetto fondamentale di queste tecniche è quello di non darsi dell’idiota tutte le volte che ci si accorge di essersi dimenticati di eseguirle: in realtà, come detto nel post precedente, il primo effetto che producono è proprio quello far toccare con mano quanto “non si sia presenti”.
Il secondo effetto è quello di rendere la vita un tantino più difficoltosa: ogni gesto viene infatti “scomposto” ed osservato. Quindi, soprattutto all’inizio, la possibilità di mollare l’esercizio è molto alta. Di fatto questo ci porta al secondo effetto, ovvero dimostrare quanta poca volontà (autorità in sé) si possieda.
Il terzo effetto (non l’ultimo, tuttavia) è quello portare un minimo di ordine nei pensieri automatici: essendo la mente abituata a vagare tra passato e futuro e mai o quasi nel momento presente, verbalizzare a livello mentale ogni singola azione porta ad un “blocco” del pensiero automatico, con un’efficacia direttamente proporzionale alla cura con cui viene svolto l’esercizio.
All’inizio questa tecnica produce molta stanchezza, dato che non si è abituati a gestire in modo consapevole né i propri pensieri né tantomeno i propri gesti. Con il passare del tempo, tuttavia, si verificheranno due effetti particolari.
Primo effetto: ci si accorge che la quantità di volte in cui NON si esegue la tecnica diminuisce.
Secondo effetto: ci si accorge che il tempo per cui NON ci si ricorda di eseguire la tecnica, diventa sempre più breve.
Dopo un lasso di tempo non prevedibile e diverso per ogni praticante, si sviluppa anche un terzo effetto: la stanchezza diminuisce fino a scomparire e si scopre invece un aumento dell’energia, della volontà e della presenza. Questo è uno degli scopi principali di questo esercizio.
Quando, come direbbe De Andrè, si inizia ad “andare in direzione ostinata e contraria” alla meccanicità, infatti, quello spreco di energia che contraddistingue l’esistenza meccanica e che equivale al fluire dell’acqua fuori dallo scolino della pasta, inizia a diminuire, con il risultato immediato che tutta l’energia non sprecata viene ad essere a disposizione dell’azione volontaria.
Dulcis in fundo, e questo è forse l’aspetto più importante di questa tecnica, si va ad allenare, esattamente come si farebbe per un muscolo, tutta una serie di “muscoli interiori” che non solo non si è abituati a flettere ma che, nella stragrande maggioranza dei casi, manco si sa di avere.
Questi “muscoli interiori” sono le strutture di base necessarie per intraprendere un percorso di sviluppo della consapevolezza propriamente detta. Senza queste strutture è praticamente impossibile strutturare quel “ricordo di sé” di cui parla Gurdjieff ma che troviamo praticamente in ogni tradizione volta allo sviluppo interiore dell’essere umano.
Compiendo correttamente questa tecnica, si inizia a costituire nel tempo una sorta di “testimone” dei nostri atti fisici (più in là vedremo che il testimone si espanderà ai pensieri, alle emozioni, alle pose etc. etc.). Questo testimone è il precursore di quello che Gurdjieff chiamava “maggiordomo interinale” (o anche “direttore facente funzioni”). In altre parole, per chi già mastica in parte la materia in questione, si inizia a costringere gli “io” frammentati a collabire in gruppi meno frammentati ma questo, ovviamente, è un altro argomento.
Concludo ricordando sintaticamente quanto detto in apertura: queste tecniche non devono essere eseguite senza una supervisione esperta. Chi le mette in pratica autonomamente lo fa a proprio rischio e pericolo.
Ricordatevi di essere eccezionali!
Ci si vede in giro!