Se vedi la possibilità, butta giù l’allievo… e non aiutarlo a rialzarsi
C’è un video che ogni tanto ricompare in rete, molto particolare e toccante (trovate il link in fondo all’articolo). Di tutti gli aspetti particolari della storia su cui si può puntare l’attenzione però non vorrei parlare del protagonista quanto prendere spunto da quello che ha fatto il suo insegnante.
In sintesi il filmato racconta la storia di Arthur, un Marine che si è ritrovato la schiena a pezzi per i troppi lanci durante la guerra del Golfo, ed era stato “condannato” dai medici a non camminare mai più senza ausili. Nel tempo, è ingrassato enormemente e si è ridotto al limite della paralisi, avendo dato per scontato che non ci fosse nulla da fare. Poi l’incontro con un insegnante di Yoga, che ha creduto in lui e che lo ha seguito per molti mesi.
In breve, nell’arco di un anno e mezzo, Arthur ha perso qualcosa come 65 chili, e… ha ripreso a camminare ed a correre, come si vede nel video.
Una storia eccezionale? Indubbiamente, ma che ci parla di due uomini altrettanto eccezionali: il primo, che non si è arreso fino a che non ha trovato la soluzione e il secondo, che a sua volta non si è arreso nell’insegnare al primo.
Come detto sopra, vorrei proprio partire dall’agire di Damian, l’insegnante di Yoga: prima di tutto ha creduto in Arthur, quando lui stesso non credeva nelle proprie possibilità. Ma più che credere in quelle possibilità, Damian le ha viste. E dopo averle viste, le ha rese disponibili all’allievo. E Arthur, che non vedeva le proprie possibilità, prima ha cominciato a vederle, poi a crederci e, alla fine, a renderle reali. Realizzarle, appunto.
Durante tutto il percorso, Arthur è caduto centinaia di volte, ma in nessun caso è stato aiutato a rialzarsi: per tutto il tempo, Damian è stato con lui o senza di lui, ma mai, neppure una volta, lo ha aiutato a rialzarsi.
Potrà sembrare selvaggio, duro, al limite anche inumano ma ho imparato, stando da entrambe le parti, che se chi ti insegna ti aiuta a rialzarti, quasi mai ti fa un favore. Infatti di solito accade proprio il contrario: quando pensi di stare iniziando a camminare con le tue gambe, chi ti insegna ti butta per terra e poi tira dritto per la sua strada.
Alzarsi è una cosa che compete a chi cade, non ad altri. Non a chi insegna, non a chi segue ne a chi precede: è un atto che attiene unicamente a chi sta a terra.
Buttare un allievo a terra significa vedere che ha la possibilità di rialzarsi (altrimenti è semplicemente un atto di violenza). Andarsene, consapevoli che dovrà rialzarsi con le sue uniche forze, è al contempo un atto d’amore ed una enorme responsabilità che, visti dall’allievo, sono quasi sempre semplicemente… crudeltà.
Ma visto da parte di chi lo mette in atto, non può che essere qualcosa che rientra in quella sfera d’amore di cui le persone, ordinariamente, non hanno la minima idea: un amore impersonale che nulla ha a che vedere con il suo corrispettivo emotivo, ma va di pari passo con la compassione, anche questa completamente estranea al suo equivalente emozionale ordinariamente definito come tale.
Se da insegnante butti a terra l’allievo, condividerai con lui il dolore della caduta, la sofferenza del presunto tradimento che vivrà, la rabbia che ti rivolterà contro per averlo fatto cadere, l’inferno di oscurità in cui trasformerà la sua vita fintanto che non deciderà di alzarsi. Ma se per un solo attimo cederai alla tentazione di tendergli la mano… renderai vano il suo sacrificio e pure il tuo. Poco o nulla sarà cresciuto nell’allievo, ma in compenso avrete subito inutilmente entrambi i famosi “strali di una vita oltraggiosa” e l’allievo continuerà a non aver scelto se dormire oppure no o, come dice il bardo, se essere o non essere.
Ci vuole del coraggio a stare lì impassibili, mentre l’allievo cade, si frantuma, si fa male e poi soffre, ti maledice, ti prende per il nemico da abbattere. E ci vuole altrettanto distacco per lasciarlo lì, a terra, sanguinante dopo l’urto e andare dritti per la propria strada, senza aspettare che si rimetta in piedi, senza aspettarsi di vederlo ricomparire all’orizzonte, dopo che al suo interno avrà trovato la forza di rialzarsi e mettersi a correre, perchè se il fatto di non rialzarsi è un problema suo… quella di averlo sbattuto a terra è una tua responsabilità.
Ci vuole molto amore per decidere di assumersi una tale responsabilità, ma qui sta la magia: chi si rialza non è mai la stessa persona che è caduta. E quello che porta dentro di sé non è mai semplicemente il risultato del processo portato a termine, ma contiene il seme della prossima trasformazione, la vera possibilità di crescere.
Lui a te nulla deve, dato che si è rialzato da solo. A te, se proprio vogliamo cercare il lato piacevole della cosa, resta a volte la certezza di aver compiuto quel servizio che tu, insieme ad alcuni come te, a un certo punto di una certa vita hai deciso di intraprendere.
Ma questo poco conta perchè poi, in ogni caso da solo come prima, proseguirai il tuo cammino.
è un altro modo di cadere,nel mio caso cadere ha voluto significare frantumare un bel po di egoismo,che per rialzarsi soltanto zazen si puo fare
Leggendo il titolo, lo confesso, ero caduta in errore: “Ma come? Butta giù l’allievo e non aiutarlo a rialzarsi?!”. Poi, però, leggendo l’articolo non posso far altro che essere d’accordo con te, soprattutto quando affermi che il rialzarsi compete solo e soltanto a chi è caduto e che chi si rialza non è mai la stessa persona che è caduta.
So di essere ripetitiva, ma ancora una volta non posso far altro che complimentarmi con te.
E io non posso che ringraziarti ancora!
…le maledizioni che si tira dietro il cosiddetto maestro!
Mi sembra poco umano (e molto americano), come giustamente osserva Andrea nel primo commento.
La mamma o il papà o il nonno che sostengono il bambino che impara a camminare lo buttano per terra? O lo lasciano li’ se lui cade spontaneamente? Ma dai. Semmai restano a guardare se lui riesce a rialzarsi, se non riesce lo tirano su.
Perfino gli animali accorrono se vedono un loro simile in difficoltà…
Ciao e grazie. Paola.
Come ho già risposto ad Andrea, nell’articolo faccio riferimento ad un altro insegnamento. Il “cosiddetto maestro”, cui fai riferimento nel tuo commento, evidentemente non hai la benché minima idea di cosa sia.